Le ipotesi di bilancio pubblico che sono state comunicate finora prefigurano una violazione certa del Patto di stabilità, sia nel suo braccio preventivo, che richiede un avvicinamento graduale al pareggio di bilancio, sia nel suo braccio correttivo per ciò che riguarda la discesa del debito «in misura sufficiente» resa possibile proprio dal perseguimento dell’obiettivo di medio termine del disavanzo strutturale. Un deficit al 2,4% significa non un miglioramento, bensì un peggioramento di circa l’1% del disavanzo strutturale.
Influirà sui giudizi della Commissione e del Consiglio anche la retromarcia su impegni presi da tempo e la proposizione di stime di crescita irrealistiche. Il cambio di strategia e di logica delle previsioni rende infatti imprevedibile il rispetto futuro anche di impegni meno vincolanti come quelli ora proposti dal governo italiano. Tutto ciò renderà più probabile l’apertura di una procedura che metta sotto controllo i conti, prima che si apra uno scontro con i mercati.
La risposta di Roma è che è stato l’elettorato italiano a scegliere strategie differenti da quelle passate e che in democrazia l’elettorato va rispettato. Inoltre si osserva che l’Italia oggi sposa un paradigma teorico economico diverso da quelli della Commissione. Tale paradigma giustificherebbe quelle previsioni di crescita che molti ritengono inverosimili.
Una parte rilevante di responsabilità nell’incoerenza nelle strategie fiscali fa capo dunque a quegli economisti italiani che stanno alimentando una profonda confusione sugli effetti concreti della spesa pubblica, degli investimenti e della variazione nel livello delle tasse. Divisi in scuole fondamentaliste e spesso privi di strumenti di verifica, quegli economisti si affidano a credenze ideologiche anziché formulare ipotesi, porre condizioni, misurare realtà disomogenee caso per caso, con la necessaria umiltà.
Tormentando il fantasma di Keynes, c’è chi nega che il debito pubblico sia un problema e chi invece ritiene che esso sia la causa di tutti i mali. Quello che però qualsiasi economista dovrebbe aver capito dopo la crisi degli ultimi dieci anni è che in condizioni di emergenza o di necessità, avere un alto debito pubblico è un serio problema. Quando Lehman Brothers saltò per aria, le banche tedesche, francesi e olandesi, richiesero un’enorme quantità di denaro pubblico per essere salvate: circa l’8% del Pil in Germania, il 5% in Francia e il 12% in Olanda. Ma questi interventi non si sono riflessi sui costi del debito di quei Paesi perché essi avevano posizioni fiscali piuttosto solide. Nel caso delle banche irlandesi e spagnole ci furono conseguenze dopo che la crisi greca cancellò la presunzione che i titoli sovrani fossero privi di rischio. Dopo il famigerato accordo di Deauville, che ha formalizzato e reso sistematico il rischio sovrano, il contagio ha colpito principalmente i Paesi che non avevano “margini di manovra fiscali”, avevano cioè alti debiti, alti disavanzi e una debole crescita economica.
Non avere margini fiscali rendeva infatti pericoloso indebitarsi ulteriormente per contrastare la recessione, come invece sarebbe stato necessario, e impediva di ricapitalizzare il sistema bancario. Tra il gennaio 2010 e luglio 2012, quando gli altri investitori scappavano dall’Italia, le banche italiane hanno riempito i loro portafogli di titoli sovrani, subendo perdite equivalenti al 22% del loro capitale primario, con ulteriori erosioni del valore azionario. La conseguenza è stata che le banche non erano più in grado di erogare credito quando l’economia ne aveva più bisogno. Nel 2011-2012, il calo del credito, ha anticipato e aggravato le conseguenze della severa correzione fiscale pro-ciclica necessaria a salvare il Paese da un default ormai certo.
Alcune circostanze si ripropongono oggi. Le banche hanno riacquistato molti titoli sovrani, accusando le perdite causate dall’aumento dello spread e il loro capitale ora non consente grandi aumenti di credito all’economia. Nel 2011, prima che la crisi colpisse le banche, i problemi di sostenibilità del debito si erano ripercossi sul giudizio delle agenzie di rating – come rischia di succedere nelle prossime settimane – coinvolgendo nel declassamento le banche e le imprese più dipendenti dal credito in ragione della loro nazionalità, fino a produrre una segmentazione finanziaria tra Paese e Paese, intrappolando i Paesi più deboli in “cattivi equilibri” cioè in spirali di recessione e fragilità. Quando la crisi si è allargata, non ci sono state più distinzioni tra banche o imprese solide o meno solide. Infine i problemi si sono ripercossi violentemente sull’occupazione e sul reddito delle famiglie. Ancora una volta, in mancanza di “margini di manovra fiscali”, lo Stato non solo non aveva le possibilità di aiutare i cittadini, ma aveva la necessità di recuperare risorse da loro. Le conseguenze sul clima politico sono state drammatiche e sono le stesse che portano oggi rabbiosamente a confondere la logica economica con la polemica politica.
Negli ultimi 30 anni, da quando nell’economia globale l’aumento del debito privato ha compensato un relativo calo del debito pubblico (oggi tornato di nuovo a crescere vigorosamente), ci sono state crisi finanziarie importanti all’incirca ogni due anni. Ipotizzare che l’Italia possa non ridurre il debito o il disavanzo nei periodi come questi in cui ancora cresce, significa dire che dovrà affrontare la prossima (certa) crisi finanziaria in condizioni peggiori di quelle del 2008.
© Riproduzione riservata