Non ci sarà la quiete a Bruxelles dopo la tempesta di lunedì scorso a Lussemburgo, quando l’Italia si è ritrovata isolata all’Eurogruppo ed esposta a malumori dei mercati. La lettera inviata ieri da Bruxelles non consente di adagiarsi sull’ottimismo di comodo affidato ai ritocchi apportati alla nota di aggiornamento al Def e alle nuove cifre della manovra.
È illusorio pensare di aver attutito toni e portata dello scontro con l’Europa e le sue regole di stabilità. Nell’occhio del doppio ciclone interno ed europeo, il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ha scritto ai suoi esaminatori Ue invitandoli a «un dialogo aperto e costruttivo», convinto «delle fondate ragioni della strategia del Governo». Bruxelles ha risposto ieri con evidente rapidità e dalla lettera è chiaro che il sentiero sul quale si avvia il Paese è strettissimo, il negoziato con la Commissione Ue tutto in salita e dall’esito incerto. Quello con l’Eurogruppo anche. Per vari motivi.
Anche se un po’ ammorbidita, resta la violazione delle regole e il forte scostamento dagli impegni presi dal precedente governo su deficit strutturale e debito. Il primo, per i Paesi fortemente indebitati, dovrebbe calare dello 0,6% annuo, ma Bruxelles era disposta ad accettare un simbolico 0,1%: difficile digerire ora un aumento all’1,7% per tutto il triennio 2019-21, rispetto allo 0,9% atteso quest’anno e allo 0,4% promesso in precedenza. Idem per il debito (132%) che scenderà di 4,5 punti percentuali contro i 10 di prima. Con un deficit nominale che salirà dallo 0,8% al 2,4%, non più però per tutto il triennio ma solo nel 2019 per poi ridursi al 2,1% e all’1,8 per cento.
Se si considera la distanza di queste cifre dalle regole, combinata con una crescita economica (1,5%, 1,6% e 1,4% nei tre anni) giudicata troppo ottimistica, e non solo da Bruxelles, si ha un’idea degli ostacoli che l’Italia dovrà scavalcare per ottenere il via libera dei partner a deviare dai parametri comuni per carburare uno sviluppo che dal 1992 si trascina sotto la media Ue, con l’unica eccezione del 1995.
L’Italia si muoverà in un ambiente ostile anche perché sfide, provocazioni quando non strafottenza dei suoi nuovi leader non le attirano simpatie e in più alimentano il nervosismo dei mercati con inevitabile aumento degli spread, quindi del costo del debito e danni alla stabilità del sistema bancario. Poi perché i ministri dell’Eurogruppo sono sul piede di guerra contro la Commissione che ha le mani legate in quanto già accusata di troppo lassismo nell’interpretazione flessibile delle regole, proprio nei confronti del nostro Paese.
I Governi Ue, tutti, hanno poi le loro gatte da pelare in casa: non sono dunque inclini a farci concessioni per non creare precedenti revanchisti che potrebbero fare scuola nell’eurozona. In particolare in Francia dove la popolarità del presidente Emmanuel Macron è in costante calo e non si vuole rischiare di fare regali indiretti al partito di Marine Le Pen.
Nemmeno il contesto economico aiuta. Tra caro petrolio e venti protezionistici i rischi di rallentamento della crescita mondiale ed europea sono reali: per un Paese esportatore come il nostro sarebbero dolori. Non solo. Il quantative easing della Banca centrale europea di Mario Draghi finirà entro l’anno, si chiuderà quindi un porto sicuro per le emissioni del Tesoro e, sia pur gradualmente, anche l’era dei tassi bassi. Se si unisce il ballo dello spread con il balzello di vari miliardi che aggiunge al conto del servizio del debito, sottraendo risorse a un Paese che ne ha una disponibilità limitata da investire e distribuire, si capiscono lo scetticismo dei mercati, la diffidenza dei partner, i timori per la tenuta della stabilità del Paese e la difficoltà di far ripartire l’Italia.
L’Italia oggi si muove sulla lama di un rasoio, ma sono i mercati molto più dell’Europa i veri sovrani del suo futuro: i primi prosperano sulla sua instabilità, l’Europa la teme per gli inevitabili contraccolpi sulla tenuta propria e dell’euro. Per questo alla fine l’Europa probabilmente farà qualche concessione per evitare altre traumatiche rotture post-Brexit e non soffiare vento nelle vele del vittimismo populista con le elezioni europee alle porte. Ammesso che con gli ultimi ritocchi il nuovo bilancio alla fine passi l’esame a Bruxelles, perché solo crescendo si sostiene il debito, per l’Italia del cambiamento sarà solo il principio di nuove prove: rilancio effettivo dello sviluppo con riforme strutturali oltre che investimenti, recupero di efficienza e competitività dell’economia e non di assistenzialismo nel rispetto dei nuovi impegni europei.
In caso contrario le vere sanzioni non le arriveranno dal patto di stabilità, ma dai mercati. E saranno pesantissime.
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