Mentre i due vice-premier del governo italiano vanno a uno scontro con l’Unione europea (Ue), un altro membro del governo, il ministro per gli Affari europei va a Bruxelles per discutere il progetto di «una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa». I primi affermano senza scrupoli di «fregarsene dell’Europa», il secondo propone di dotare l’Ue di una nuova «base costituzionale» (o politeia). I primi assumono che la forza dell’Italia dipenda dalla capacità di indebolire l’Europa, il secondo ritiene che il rafforzamento di quest’ultima sia la condizione di una buona politica nazionale. Siamo di fronte al tradizionale gioco delle parti, in cui l’uno fa il poliziotto buono e gli altri il poliziotto cattivo? Può darsi. Tuttavia, l’esito è la confusione al governo. Spiego perché.
Sull’istinto anti-europeista dei due vice-premier c’è poco da discutere. Per loro, l’Ue deve piegarsi alle esigenze del “popolo” italiano (come se essi lo rappresentassero interamente). Quelle esigenze sono prioritarie rispetto alle regole europee del Patto di stabilità e crescita, alle valutazioni impersonali delle agenzie di rating sullo stato di salute della nostra economia, alle analisi econometriche sulla sostenibilità finanziaria delle contro-riforme che si vogliono realizzare. I due vice-premier incarnano il populismo nella sua drammatica superficialità, dividendo il mondo in “noi” (i buoni) e “loro” (i cattivi). Sono consapevoli che ciò li porterà a uno scontro frontale con la Ue, ma è bene che sia così, se si vuole “spazzare via” le sue classi dirigenti con le elezioni del prossimo maggio 2019. Naturalmente non sanno cosa farebbero se vincessero quelle elezioni, né sanno quale nuova Europa dovrebbe sostituire la vecchia Europa. Ma i populisti, come argomenta Yascha Mounk, vivono nel presente, vogliono fare il bene del popolo “subito”, disinteressandosi se ciò produrrà un male “subito dopo”.
Alla nuova Europa pensa invece il ministro degli Affari Europei che, nel suo progetto, propone di «studiare e risolvere le debolezze istituzionali e politiche che si riflettono in un saggio di crescita reale permanentemente inferiore al resto del mondo sviluppato».
Qui il tono è molto diverso. Il progetto è scritto con un linguaggio appropriato a un dibattito pubblico. Le argomentazioni sono ragionevoli, seppure costellate di inesattezze tecniche sorprendenti (si sostiene che il fiscal compact sia una direttiva mentre è un trattato intergovernativo, oppure che il Consiglio dei Capi di stato e di governo abbia poteri legislativi mentre è un organo esecutivo). È comunque ragionevole sostenere, come fa il ministro, che la crescita dipenda anche dalla domanda e non solo dall’offerta. Se è necessario intervenire sui fattori che incidono su quest’ultima (accrescendone la produttività), nondimeno occorre favorire anche politiche di investimento che accrescano la domanda (pubblica e privata). Ciò richiede una maggiore libertà di azione fiscale da parte degli stati membri che (come il nostro) hanno dimostrato di non riuscire a crescere attraverso riforme solamente sul lato dell’offerta.
Ed è qui che interviene il cappio dell’Eurozona, costituito dal controllo delle politiche fiscali dei suoi Stati membri da parte della Commissione e dell’Eurogruppo (l’organo collegiale dei ministri finanziari dell’area). Per il ministro, occorre dunque allargare quel cappio, sia sul versante fiscale che sul versante monetario. Sul versante monetario, formalizzando il ruolo della Banca centrale europea (Bce) come «prestatore di ultima istanza». Sul versante fiscale, alleggerendo «il coordinamento delle politiche fiscali nazionali..(dai vincoli che impediscono) i poteri di intervento» dei singoli Stati. Entrambe le proposte sono insoddisfacenti. Innanzitutto perché la Bce agisce di già da prestatore di ultima istanza. E poi perché l’allentamento del coordinamento delle politiche fiscali nazionali è incompatibile con la logica che regge il funzionamento dell’Eurozona. La zoppia di quest’ultima non è dovuta all’astratta assenza di un’unione politica, ma alla concreta mancanza di una sua capacità fiscale indipendente dagli Stati membri.
Se si rimane nella logica intergovernativa, come fa il ministro, non si farà molta strada. Occorre andare al cuore del compromesso su cui è stata costruita la governance dell’Eurozona, quello costituito da un’unica politica monetaria e da 19 (oggi) politiche fiscali. Occorre fornire l’Eurozona di una capacità fiscale separata dalle politiche di bilancio degli Stati membri. Solamente attraverso un’autonoma capacità fiscale di Bruxelles è possibile avviare politiche di investimento che aiutino la crescita dal versante della domanda. Ma ciò significa rivedere l’idea nazionalista della sovranità fiscale che ha giustificato quel compromesso. Con il risultato che gli Stati membri hanno preservato formalmente la loro sovranità fiscale, ma hanno dovuto poi accettare di regolamentarne l’uso per renderla compatibile con la gestione di una comune moneta.
Per liberarsi del cappio che impedisce una politica della domanda, occorre dunque dotare l’Eurozona di un suo budget. Esattamente come proposto dai due arci-nemici dell’attuale governo italiano (Macron e Merkel) nella loro ‘Dichiarazione di Meseberg' del 19 giugno scorso. Già alla fine del Settecento, Alexander Hamilton aveva elaborato un modello di federalismo fiscale basato sulla distinzione della capacità di spesa dell’unione e dei singoli Stati (questi ultimi poi esposti alla disciplina dei mercati finanziari).
Insomma, la confusione sembra essere al governo. Come è possibile proporre una politica della domanda combattendo la posizione franco-tedesca (favorevole a un bilancio dell’Eurozona) e alleandosi con chi (i Paesi di Visegrad) quel bilancio lo vedono come fumo agli occhi? E soprattutto, come si concilia il progetto di una nuova “politeia” per l’Ue con gli istinti dei due vice-premier che vogliono invece svuotare quest’ultima?
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