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Dossier Nel labirinto impossibile della Brexit

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Dossier | N. 57 articoli Mappamondo

Nel labirinto impossibile della Brexit

Chiunque conosca le famose incisioni di M.C. Escher può immaginare cosa significhi perdersi nell’immensità ossessiva di un labirinto che si ripropone all’infinito. Oggi, la popolazione britannica sta vivendo qualcosa di simile, solo senza la precisione e la meraviglia escheriane.

 Si potrebbe chiamare il Labirinto impossibile della Brexit. Il primo ministro Theresa May ne ha varcato audacemente la porta d’ingresso il 29 marzo 2017 attivando l’Articolo 50 del Trattato di Lisbona. Da allora, non fa che vagare nei meandri di un dedalo politico e logistico.

 In cerca di una direzione
Addentrandosi per la prima volta nell’oscurità del Labirinto impossibile della Brexit, si va avanti finché non s’incontra una fitta siepe che costringe a un bivio. A quel punto, si può scegliere tra una brusca svolta a sinistra, oppure una curva più morbida verso destra. Il primo percorso conduce alla zona del labirinto denominata “quadro della relazione finale”, la seconda, invece, verso un “trattato di uscita”, che riguarda esclusivamente le condizioni del divorzio della Gran Bretagna dall’Ue.

 Coloro che prendono la via di sinistra si trovano ad affrontare un’ulteriore scelta tra una svolta ancora più a sinistra, “l’opzione Norvegia” – aderire allo spazio economico europeo – e una a destra verso un accordo di libero scambio come quello che l’Unione europea ha recentemente siglato con il Canada. Ma c’è anche una terza via che conduce a un “accordo su misura” contenente elementi di entrambe le suddette opzioni.

 Come May ha appena scoperto perseguendo il suo “piano Chequers”, quest’allettante terza via porta dritta in un vicolo cieco. Dall’inizio di luglio, la premier britannica ha fatto pressioni per una proposta di compromesso che manterrebbe l’industria e l’agricoltura del Regno Unito nel mercato unico europeo e nell’unione doganale, limitando al tempo stesso la libertà di movimento dei cittadini e dei servizi tra le due parti. Il problema è che l’Ue ha rifiutato categoricamente tale proposta poiché andrebbe a minare il complesso sistema di compromessi su cui il blocco europeo, e in modo particolare il mercato unico, si è basato negli ultimi sessant’anni.

 Essendo giunti a un punto morto, dunque, bisogna ripercorrere la strada all’indietro fino al bivio in cui si diramava in tre parti, che però ora sono diventate due, l’opzione Norvegia e l’accordo di libero scambio.

 Il giardino dei sentieri che si biforcano
Se si intraprende il percorso di destra verso un accordo di libero scambio, si arriva presto in un altro vicolo cieco, stavolta però di natura più logistica che politica. Dopo 45 anni di appartenenza all’Ue, l’economia britannica è legata all’Europa continentale da una vasta rete di catene di fornitura molto integrate tra loro. Ci vorrebbero dai cinque ai dieci anni per ristrutturare il comparto manifatturiero britannico in modo tale da metterlo in condizioni di operare entro i limiti di un nuovo accordo di libero scambio. 

Nello specifico, il Regno Unito e l’Ue dovrebbero istituire controlli di frontiera e un nuovo regime normativo e di monitoraggio per garantire la conformità degli standard tecnici non più uniformi, rimborsare l’imposta sul valore aggiunto, controllare che le merci in esenzione doganale abbiano origine all’interno dell’accordo, e imporre dazi su quelle esterne ad esso. Tutto questo renderebbe insostenibile gran parte della produzione “just in time” (cioè, su richiesta) britannica odierna. Ma dato che il cosiddetto periodo di transizione che inizierà il 29 marzo 2019 durerà soltanto fino alla fine del 2020, adeguare il settore manifatturiero britannico in questo lasso di tempo è semplicemente impossibile. 

Ciò non lascia altra scelta che tornare nuovamente sui propri passi, solo che adesso il bivio è diventato una strada unica che vira a sinistra verso l’opzione Norvegia. Tuttavia, poiché stiamo parlando del Labirinto impossibile della Brexit, anche il terzo e ultimo sentiero finisce su un binario morto. 

Il motivo è che l’adesione allo spazio economico europeo “alla norvegese” – che darebbe al Regno Unito accesso al mercato unico senza la possibilità di influenzare i processi decisionali dell’Ue – è inaccettabile per May poiché non soddisfa nessuna delle “linee rosse” avventatamente proclamate due anni fa prima di entrare nel merito delle complessità legate all’integrazione delle catene di fornitura europee. Inoltre, è probabile che tale opzione sarebbe respinta anche dalla Camera dei comuni britannica, dove il numero dei parlamentari laburisti all’opposizione e dei Tory antieuropeisti sarebbe sufficiente a bocciarla. 

Un problema senza soluzione
Allora, cosa si fa adesso? L’unica possibilità sembra quella di ritornare al punto di partenza e tentare la sorte scegliendo il “trattato di uscita”. In questo caso, un accordo formale di ritiro potrebbe almeno aprire la porta a una “Brexit al buio”, in base alla quale il Regno Unito lascerebbe l’Ue il 29 marzo 2019 senza avere ancora un “quadro definitivo” per il post-2020. 

Tuttavia, inutile dirlo, questo percorso ha le sue insidie. Il mistero intorno a quello che potrebbe essere la versione finale della Brexit getterebbe l’industria britannica e gli investitori stranieri in uno stato di profonda incertezza. Gli investimenti registrerebbero un calo significativo. Ma con le altre opzioni ora precluse, non c’è proprio nessun’altra scelta: che trattato di uscita sia, allora. 

Ma da dove si dovrebbe cominciare? Imboccando questa via, si arriva subito a un altro bivio con tre diramazioni. Scegliere quella centrale vuol dire affrontare, innanzitutto, l’irrisolvibile “questione del confine irlandese”. La sfida è istituire una frontiera senza attriti tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda che continuerà a essere uno stato membro dell’Unione soggetto alle regole dell’unione doganale e del mercato unico. 

In alternativa, prendere il percorso a destra richiederebbe, come prima cosa, di sistemare la questione degli impegni finanziari della Gran Bretagna verso l’Ue. L’entità della fattura del divorzio e il piano per saldarla sono ancora da definire. Infine, scegliere la via a sinistra costringerebbe ad affrontare in primis lo spinoso problema dei cittadini europei che attualmente risiedono nel Regno Unito. Quali diritti avranno questi quattro milioni di persone dopo la Brexit? 

Se si prende la via a destra e si riesce effettivamente a risolvere la questione degli impegni finanziari, si scoprirà che a quel punto il percorso si ricongiunge a quello centrale. Ma se pure si torna indietro per imboccare il sentiero a sinistra, si vedrà che anch’esso si unisce a quello al centro. In altre parole, risolvere i problemi della fattura del divorzio e dei diritti dei cittadini europei non risolverebbe comunque la questione irlandese.

Tutte le strade portano in Irlanda
Incamminandosi sul sentiero centrale, si giungerà presto a un altro bivio. Qui la scelta è tra un “hard border” – ovvero un confine rigido con controlli doganali e altre “infrastrutture di frontiera” – tra la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord, e nessuna frontiera tra il Regno Unito e l’Ue. Queste sono le uniche due opzioni per evitare un hard border tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda, che, oltre agli evidenti costi economici, rischierebbe di mettere a repentaglio l’accordo del Venerdì Santo, che garantisce la pace tra i protestanti e i cattolici nel nord da quasi una generazione. 

Intraprendere la prima via, verso un hard border nel Mare d’Irlanda, sarebbe inaccettabile per un’ampia porzione del partito conservatore di May e per i protestanti dell’Ulster, da cui il suo governo dipende per la maggioranza in parlamento. Imboccare la seconda, però – nessun confine tra Regno Unito e Unione Europea – riporta dritti al vicolo cieco del piano “Chequers”, perché l’Ue non accetterà la libera circolazione dei beni senza quella delle persone. E seppure l’Ue accettasse l’opzione Norvegia, May ha già lasciato intendere che sarebbe contraria.  

Ma supponiamo comunque che la questione irlandese possa essere risolta con un accordo “autonomo” o l’introduzione di infrastrutture “soft” che consentano alle dogane un’attività di monitoraggio senza un hard border. Anche in tal caso, resta aperta la domanda se il Parlamento accetterebbe una “Brexit al buio”. I parlamentari più pragmatici certamente si domanderebbero perché portare il proprio paese fuori dall’Ue senza avere alcuna idea di quello che sarà l’accordo futuro.

La non-opzione nucleare
A questo punto del labirinto, si profilano altre tre alternative. La prima è appiccare il fuoco alla siepe e cercare di aprirsi un varco verso il centro evitando di bruciarsi. Ma questa ipotesi – una “Brexit senza accordo” – non può finire bene. Come si è visto, dopo 45 anni di appartenenza all’Ue, l’economia della Gran Bretagna – specialmente il settore manifatturiero – è più interconnessa con il resto del continente di quanto alcuni politici e persino economisti britannici sembrino aver realizzato. Ovviamente, lo stesso vale per tutti gli stati membri, dei quali nessuno, però, si è imbarcato nella scelta autodistruttiva di uscire dall’Ue. 

Per comprendere ciò che questo comporta, facciamo un esempio concreto. Dozzine di aziende produttrici di parti automobilistiche hanno stabilimenti a Saragozza (una città piuttosto grigia della Spagna nord-orientale) che realizzano piccoli assortimenti di input produttivi che vengono poi distribuiti in tutto il continente per mezzo di camion. Ogni componente arriva alla rispettiva destinazione “just in time”, cioè appena in tempo per essere utilizzato nella produzione di una vettura. 

Queste fabbriche si trovano in decine di città in tutta Europa. Perché ce ne sono così tante? Perché un’automobile moderna contiene circa diecimila elementi mobili diversi. Produrre tutti i pezzi di una singola vettura in un unico luogo richiederebbe un agglomerato urbano svariate volte più grande di Saragozza (che conta 750.000 abitanti). L’Europa semplicemente non ha megacittà manifatturiere di questa entità (mentre alcuni paesi asiatici sì). Ciò significa che, per avere un settore manifatturiero al passo con i tempi, i paesi europei devono puntare su catene di fornitura basate sul modello “just in time”. 

Inoltre, questa struttura industriale consente a ciascun produttore di cogliere i benefici della specializzazione e delle economie di scala. Uno stabilimento può produrre un numero relativamente esiguo di articoli, ma i suoi cicli produttivi sono lunghi dal momento che rifornisce buona parte del continente. E poiché esistono vari fornitori per ciascun componente, la concorrenza che ne deriva favorisce l’innovazione, riduce i prezzi e previene i monopoli e altre inefficienze.

Infine, poiché le catene di fornitura “just in time” dell’Europa realizzano piccole partite di input per l’utilizzo su richiesta, i produttori hanno ridotto drasticamente i costi sul capitale circolante. Uno stabilimento Honda ubicato nella cittadina di Swindon, nel sud-ovest dell’Inghilterra, ha tempi di giacenza degli ordini in arrivo così brevi che sarebbe costretto a cessare la produzione entro 36 ore se s’interrompessero le forniture. L’azienda teme che, con la reintroduzione dei controlli doganali dopo la Brexit, i componenti prodotti in Europa potrebbero impiegare fino a nove giorni per raggiungere Swindon. Il problema, osserva il Financial Times, è che “un deposito in grado di contenere nove giorni di manufatti Honda dovrebbe avere un’area di 300.000 metri quadrati – praticamente, una delle più gigantesche strutture del pianeta”. 

Pertanto, una “hard Brexit” – che preveda il ritiro istantaneo dal mercato unico e dall’unione doganale nel marzo 2019 – implicherebbe costi insostenibili, soprattutto per i lavoratori del settore manifatturiero (che, ironicamente, hanno votato in massa a favore). Se i politici fautori dell’uscita dall’Ue comprendessero quest’ovvia verità, non opterebbero mai per una Brexit senza accordo. Qualora lo facessero, forse inizialmente avrebbero l’appoggio dei loro sostenitori, ma nel momento in cui i nodi economici venissero al pettine, i fautori della Brexit si ritroverebbero decimati alle urne.

Una luce all’inizio del tunnel
Se (intelligentemente) si rinuncia alla scelta di autoimmolarsi, restano due alternative. La prima è tornare al punto di partenza, sedersi un momento e attendere che “succeda qualcosa”. In pratica, questo vuol dire chiedere ulteriori proroghe del “periodo di transizione” oltre il mese di dicembre 2020. Per allora la Brexit sarebbe già avvenuta, ma il Regno Unito sarebbe ancora soggetto a decisioni, leggi e regolamenti europei. La differenza è che la Gran Bretagna  non avrebbe più un posto alla tavola europea né potrebbe siglare accordi commerciali con altri paesi – una prospettiva che sta molto a cuore ai sostenitori dell’uscita. In altre parole, farebbe parte dello spazio economico europeo, seppure in maniera informale e indefinita.

Questa prima opzione è ciò che Boris Johnson, tra i fautori della Brexit, chiama “BINO” (acronimo per “Brexit in name only”), ovvero una Brexit solo di nome. Il Regno Unito, parole sue, diventerebbe uno “stato vassallo” dell’Ue, ma almeno la sua economia eviterebbe di andare incontro a forti turbolenze.

L’ultima opzione, supponendo di essere stanchi di arrancare in un labirinto di dilemmi senza soluzione, è semplicemente quella di uscire dalla porta da cui si è entrati senza voltarsi mai più indietro. In pratica, questo significherebbe ribaltare la decisione di attivare l’articolo 50 per poi indire un secondo referendum sull’abbandono definitivo della Brexit.

Cari britannici, a voi la scelta.

*Jacek Rostowski è stato vice premier e ministro delle finanze della Polonia dal 2007 al 2013.

 

Copyright: Project Syndicate, 2018.
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