Lo sappiamo, una rondine non fa primavera. Ma è bastato entrare nel centro logistico di Amazon a Baltimora - un colosso di quasi 100.000 metri quadrati e 18 chilometri di nastri trasportatori altamente tecnologicizzati - per farci dubitare delle categorie che ancora utilizziamo per classificare imprese e lavoro. Siamo ancora nella logistica o in una moderna manifattura dei servizi? La mission aziendale è certamente quella tipica di una impresa della logistica. I metodi di organizzazione del lavoro, grazie a un sofisticato impiego delle più moderne tecnologie, sembrano tuttavia quelli di una fabbrica manifatturiera.
Ce lo ha ricordato proprio in questi giorni il presidente di Assolombarda, Carlo Bonomi, senza scomodare il caso Amazon: l'immagine che ancora abbiamo in Italia delle imprese, quella che passa tutti i giorni su televisioni e carta stampata e che resta impressa nell'immaginario collettivo, è profondamente antiquata. Chi conosce le imprese italiane, spesso lontane come dimensione dai colossi internazionali, sa invece che non sono pochi i gioielli sparsi geograficamente lungo il nostro Paese.
Gioielli che però, non senza qualche complicità di una certa cultura ancora centrata sulle contraddizioni del Novecento industriale, si trovano frenati da una visione della impresa o del lavoro che sembra limitarne non poco il potenziale. Se così non fosse, e se non fosse ancora forte il pregiudizio e l'ostilità per il fare impresa, non avremmo registrato tante resistente verso iniziative di buon senso come quelle che si registrano in altri Paesi: la buona alternanza scuola lavoro su tutte.
La verità è che, nel dibattito scientifico come in quello politico-sindacale, restiamo ancorati a logiche settoriali nette e verticali che non esistono più. Separiamo il settore manifatturiero da quello dei servizi, facendo finta di ignorare come ormai la tecnologia consenta livelli di intermediazione tali nella erogazione di servizi da industrializzare i processi, garantendo allo stesso tempo altissimi livelli di personalizzazione dei prodotti. Allo stesso tempo la moderna manifattura vede sempre di più nei servizi connessi ai prodotti una parte importante del valore aggiunto che genera. Con la diffusione del 5g e del cosiddetto “Internet delle cose” il trend non potrà che crescere.
Questi cambiamenti incidono profondamente sul mondo del lavoro in una società che è profondamente scossa da cambiamenti demografici che non possono tollerare una contrapposizione tra giovani e anziani o tra italiani e immigrati come se il lavoro fosse una merce fissa, quel “lavoro astratto” di marxiana memoria che un illuminato esponente del sindacato come Bruno Trentin aveva riconosciuto in pieno declino già sul volgere del secolo scorso. Cambia la domanda di competenze e professionalità, che sono sempre meno legate al settore in cui l'impresa si troverebbe astrattamente ad operare. Cambia l'organizzazione del lavoro, con esigenze di flessibilità sempre più in linea con la domanda mutevole ed esigente del consumatore. Cambiano i tempi e i luoghi di lavoro, grazie alla digitalizzazione che invade tutti i processi produttivi.
Parliamo ancora della vecchia flexicurity, che in Italia stenta a decollare per l'assenza di politiche attive e di una profonda rivisitazione del welfare, ma la verità è che siamo da tempo dentro la dimensione dei mercati transizionali del lavoro, che rendono impossibili tanto le ricollocazioni da posto a posto quanto le uscite anticipate dal mercato del lavoro che, in ragione dei cambiamenti demografici, affossano poi i sistemi sanitari e di welfare. La nuova economia richiede, piuttosto, percorsi di continuo apprendimento e di aggiornamento delle professionalità che accompagnino la persona lungo tutto l'arco della vita nella dimensione di una società attiva. Una società che non ha paura del lavoro e che non vede nel lavoro una pena esistenziale da fuggire alla prima finestra pensionistica possibile.
Per questi motivi crediamo che oggi serva una grande riflessione in grado di condurre ad una nuova visione del lavoro, che non può che passare da una esatta conoscenza di cosa sia l'impresa oggi nella IV rivoluzione industriale. Il Libro Bianco presentato nei mesi scorsi da Adapt e Assolombarda ha provato ad avanzare alcune ipotesi, ma è necessario che imprese, sindacati, amministrazioni locali e nazionali decidano se vogliono o meno accettare la sfida di immaginare assieme un mondo nuovo lasciando alle spalle le incomprensioni e i conflitti del passato perché con il rancore non si costruisce nulla. Molte delle contraddizioni di oggi sono la conseguenza della ottusa applicazione di schemi vecchi a condizioni economiche e sociali nuove.
È così quando si attacca la classe dirigente, nel pubblico come nel privato, come avvenuto nel confuso e rancoroso dibattito sulle “pensioni d'oro”, senza colpire i veri privilegi e piuttosto delegittimando una intera categoria professionale le cui pensioni sono un prodotto di contributi versati nell'arco di una vita lavorativa caratterizzata da impegno e responsabilità e a cui compete guidare la società italiana verso il nuovo. È così anche quando si parla di centri pubblici di collocamento, di welfare aziendale e conciliazione vita-lavoro, di tempi e luoghi di lavoro, fino alle carriere discontinue e al ruolo della formazione continua.
Tutti elementi che possono avere un valore enorme nel costruire un nuovo mondo del lavoro ma che vanno letti con gli occhi del presente e non con quelli del passato. Altrimenti il welfare aziendale diventa un elemento slegato dalle trasformazioni dell'impresa e accusato di essere una modalità di riduzione dei salari e di attacco al welfare pubblico. La conciliazione vita-lavoro una modalità per consentire alle donne di non lavorare senza costruire modelli nuovi resi possibili anche dalla tecnologia. I luoghi e i tempi di lavoro sono solo strumenti di controllo propri di una organizzazione taylorista che vede i lavoratori come proprietà dell'imprenditore, e non occasione per ripensare il ruolo del lavoratore e la sua produttività. Le carriere discontinua una condanna perché abbandonano il lavoratore alle onde del mercato, senza un sistema di politiche attive che possa sostenerlo. Fino alla formazione, che è vista dalle imprese come una perdita di tempo e risorse, o peggio ancora come il rischio di formare persone che poi andranno a lavorare per imprese concorrenti.
Dubitiamo che la politica di oggi sappia applicare il metodo proposto dal Presidente di Assolombarda nella scelta di dove allocare le scarse risorse pubbliche seguendo cioè un percorso condiviso e attento all'interesse del Paese piuttosto che alle pulsioni irrazionali della pancia dell'elettorato come se fossimo in una competizione elettorale senza tregua. E certamente non possiamo negare alcune distorsioni del passato che, nel seguire logiche concertative attente alla distribuzione di risorse piuttosto che alla creazione di valore, ci ha consegnato un debito pubblico che pesa come macigno sulle generazioni più giovani e sul futuro dell'Italia.
Sappiamo però, proprio leggendo le trasformazioni del lavoro e della impresa, quanto sia importante il ruolo dei corpi intermedi e di una rappresentanza che, se saprà trovare al proprio interno le ragioni del rinnovamento, costituisce un prezioso interlocutore per un governo che davvero voglia conseguire quel cambiamento che, se solo declamato nei comizi e sui social network, finirà per ritorcersi come un violento boomerang contro chi ha solo illuso le speranze e gli sforzi della parte sana del Paese che è ancora dominante e che spiega come, nonostante tutto e contro tutto, la nostra resti una economia viva e capace di competere su mercati globali sempre più competitivi e difficili.
Francesco Seghezzi (Direttore Fondazione Adapt)
Michele Tiraboschi (Ordinario di diritto del lavoro, Università di Modena e Reggio Emilia)
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