Mentre vanno avanti i negoziati per la Brexit del Regno Unito, gli altri Paesi europei stanno utilizzando la fase di incertezza sulla futura regolamentazione dei mercati finanziari del continente per attirare aziende e attività lontano da Londra verso i centri rivali. I francesi sono particolarmente attivi a supporto di Parigi, ma Francoforte, malgrado il tiepido appoggio da parte del governo, non è da meno. E altre città come Lussemburgo, Dublino e Amsterdam hanno steso i “tappetini di benvenuto”. I banchieri non erano così popolari da oltre un decennio.
Altre città dovrebbero quindi desiderare di emulare Londra e diventare un centro finanziario? Sanno cosa è bene per loro e per le economie nazionali di cui fanno parte?
La crisi finanziaria globale del 2008 ha spinto a ripensare pro e contro. Ospitare un importante centro finanziario è un bene per le concessionarie Porsche, gli champagne bar e gli strip club. Ma secondo alcuni gli inconvenienti in termini di effetti sul resto dell’economia sono troppo seri da ignorare.
Andy Haldane, capo economista della Bank of England (BoE), ha descritto l’industria bancaria come «inquinante», almeno in parte. «Il rischio sistemico - a suo avviso - è un sottoprodotto nocivo» che «rischia di mettere in pericolo gli innocenti passanti nell’economia». Alcuni Paesi, tra cui il Regno Unito, continuano a sostenere «i costi sociali a carico della collettività derivanti dalle crisi bancarie».
Si può comunque affermare che la riforma della regolamentazione, soprattutto il netto aumento dei requisiti patrimoniali stabiliti dal Comitato di Basilea per la vigilanza delle banche di rilevanza sistemica, ha significativamente ridotto il rischio di incorrere in quei costi. Le ricerche hanno dimostrato che i cosiddetti coefficienti patrimoniali in termini di Tier 1 superiori al 13% tagliano il rischio di drastici collassi del sistema bancario. Il rischio non potrà mai essere ridotto a zero, ma gli stress test effettuati dagli enti di vigilanza dimostrano che la maggior parte delle grandi banche ora può sopravvivere a shock economici estremi. In un modello della BoE in cui il Pil si contrae del 4,7% e i prezzi delle case crollano del 33%, le banche sopravvivono.
Altri studi, tuttavia, puntano agli altri effetti collaterali derivanti dall’ospitare un settore finanziario di grandi dimensioni. Stephen Cecchetti ed Enisse Kharroubi della Bank for International Settlements (Bis) sostengono che un settore finanziario troppo ampio danneggia produttività e crescita.
A spiegare questo risultato c’è la distorsione dell’allocazione delle competenze. Il settore finanziario, che solitamente paga più degli altri, spinge le poche risorse di alto livello lontano dalle aree dell’economia in cui potrebbero contribuire di più alla produttività. Quando ero direttore della London School of Economics, mi colpiva il fatto che in una scuola che offre un’ampia gamma di scienze sociali e umanistiche, e non solo finanza ed economia, in alcuni anni oltre il 30% dei laureati hanno trovato posti di lavoro nel settore finanziario. Molti laureati in ingegneria dell’Imperial College di Londra sono stati sedotti dalle banche d’investimento, che li pagano senza badare a spese per inventare elaborate strutture finanziarie invece di ponti o macchine utensili.
Un secondo effetto collaterale negativo, secondo Cecchetti e Kharroubi, deriva dalla preferenza della finanza bancaria per gli investimenti nel settore immobiliare, dove sono disponibili delle garanzie, invece che per investimenti difficilmente valutabili in aziende tecnologiche. I loro calcoli suggeriscono che un elevato grado di finanziarizzazione dell’economia, ben al di sotto del livello registrato nel Regno Unito negli ultimi anni, possa impedire la crescita.
Altri studi suggeriscono che gli effetti negativi iniziano a farsi sentire quando il credito al settore privato eccede l’80-100% del Pil. Durante la crisi finanziaria, il coefficiente nel Regno Unito si aggirava attorno all’180%, rimanendo ben saldo oltre il 100% per un certo periodo. E altri sostengono che un ampio settore finanziario possa rafforzare il tasso di cambio, rendendo le altre esportazioni meno competitive.
Una ricerca più controversa recentemente pubblicata dalla University of Sheffield va ben oltre, e tenta di stimare il costo economico sostenuto a seguito della specializzazione della Gran Bretagna in alta finanza. Gli autori arrivano a un dato di 4,5 trilioni di sterline (5 trilioni di euro), o due anni di Pil ai livelli del 2018, per un periodo compreso tra il 1995 e il 2015.
Se questa analisi è corretta, dovremmo spedire i banchieri a Parigi in speciali treni Eurostar, sigillati per evitare che possano saltar giù prima di raggiungere il Tunnel della Manica. Spostarsi da Lombard Street a Boulevard Haussmann potrebbe essere più efficace di qualsiasi altro tentativo che noi inglesi abbiamo fatto nei secoli per danneggiare i nostri più stretti vicini.
Ma quanto sono solidi questi calcoli? L’argomentazione secondo cui nella finanza, così come i beni di lusso, gli eccessi sono dannosi ha una sua plausibilità. Il presunto impatto sulla crescita poggia però sull’assunto che alcuni lavoratori qualificati svincolati dal settore finanziario si sposteranno altrove nell’economia, invece di seguire impieghi in ambito finanziario ovunque essi vadano. Non vi è garanzia che ciò accadrà, o che l’occupazione persa per gli spostamenti del comparto finanziario sia compensata dalla crescita altrove. Il manifatturiero britannico ha registrato basse performance per ragioni non riconducibili alla finanza, compresi manager di basso livello e cattive relazioni sindacali.
È come se il Regno Unito stesse per testare queste teorie nel mondo reale. A meno che non vi siano sorprendenti novità sul piano dei negoziati per la Brexit in grado di produrre un futuro regime di libero scambio sia per i beni che per i servizi, una sostanziale ricollocazione dell’attività finanziaria nel continente, e in Irlanda, si verificherà nel tempo. Se e quando ciò accadrà, dobbiamo sperare che gli economisti della Bis, derisi a Londra quando la città era all’apice del successo, non abbiano tutti i torti.
Presidente di Royal bank of Scotland, già presidente della Fsa e direttore della Lse
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