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L’economia impone all’Europa di cambiare

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L’economia impone all’Europa di cambiare

Martedì 6 novembre si terranno le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti. Riguardano l’elezione delle due camere del Congresso, oltre che di molte cariche statali e locali. Attualmente, in entrambe le camere, la maggioranza è controllata dai repubblicani alleati con il presidente Trump. Attraverso il cosiddetto “governo unificato”, Donald Trump ha potuto introdurre (dopo la sua elezione alla presidenza nel 2016) cambiamenti radicali nella politica internazionale del Paese. Anche se i democratici conquisteranno la maggioranza alla Camera, tuttavia, quella politica non verrà rovesciata. Come ha scritto Robert Jervis, indietro non si torna più. Trump ha accelerato una trasformazione del sistema internazionale che era già in corso. Quali sono gli effetti di tale trasformazione per l’Europa? Consideriamo prima il mondo e poi il nostro continente.

Nel bene e nel male, gli Stati Uniti determinano gli equilibri mondiali. Trump ha messo in discussione il sistema multilaterale che gli stessi Stati Uniti avevano costruito nel secondo dopo-guerra. Il sistema multilaterale (costruito intorno all’Onu) ha rappresentato una discontinuità storica nell’organizzazione del sistema internazionale (sia economico che politico). Esso si è basato sull’inclusione degli interessi nazionali nei vari regimi regolativi internazionali (economici, come l’Organizzazione mondiale del commercio o Omt, oppure politici, come le Convenzioni sui diritti umani dell’Onu). L’apertura dei mercati e la difesa dei diritti umani hanno costituito l’architrave di ciò che è stato chiamato, ad esempio da John Ikenberry, l’ordine internazionale liberale. Certamente, le regole di funzionamento di quel sistema erano coerenti con i valori e gli interessi della potenza-guida, gli Stati Uniti.

Tuttavia, questi ultimi hanno guidato il sistema attraverso l’egemonia piuttosto che la dominazione (anche se sono ricorsi alla seconda quando non erano in grado di usare la prima). La fine della Guerra Fredda (1989-1992) ha consentito di estendere il sistema multilaterale alla parte non-occidentale del mondo, che ne ha accettato pienamente la logica. Tant’è che la Cina ha operato per entrare nell’Omt, piuttosto che per creare un’organizzazione alternativa. Il sistema multilaterale ha retto sul piano esterno, ma ha perso consenso sul piano interno. Attraverso l’apertura degli scambi commerciali, e facendosi carico di consistenti disavanzi commerciali, gli Stati Uniti hanno favorito lo sviluppo economico ed industriale di Paesi come la Cina e l'India, sviluppo che ha liberato dalla miseria milioni e milioni di persone. Ma ciò ha avviato processi di de-industrializzazione e impoverimento all’interno degli Stati Uniti stessi, oltre che degli altri Paesi occidentali. Di qui, la messa in discussione, da parte di Trump, dei regimi regolativi di quel sistema, da quelli economici (attraverso l’introduzione di dazi oppure la revisione di trattati di cooperazione economica come il Nafta) a quelli politici (attraverso la decisione di uscire dall’Inf oppure dall’Iran nuclear deal framework). Gli Stati Uniti di Trump si proteggono dalla globalizzazione imponendo negoziati a due con i vari Paesi (in cui possano imporre i loro interessi). Trump ha reso evidente che il sistema internazionale è ormai senza un centro. Charles Kupchan l’ha chiamato «il mondo di nessuno».

L'Europa è stata scardinata dalla presidenza Trump. Quest’ultima l’ha indebolita e divisa, proprio per aumentare il potere negoziale degli Stati Uniti. La debolezza dell’Europa ha favorito l’influenza della Russia sul continente, riportando quel Paese a condizionarne le dinamiche politiche ed economiche. Si è creata una convergenza di interessi e di ideologie tra Trump e Putin. Entrambi vogliono che l’Europa ritorni ad essere un’espressione geografica, non già un attore economico (e ancor meno politico). A questa doppia pressione, l’Europa non ha saputo reagire, anche perché paralizzata al suo interno dalla “quinta colonna” sovranista. Il declino di Angela Merkel è esemplare.

È il risultato della pressione esterna e interna, ma è anche la conseguenza dell’incertezza europea. Come ha argomentato Yascha Mounk, la cancelliera tedesca è stata sconfitta anche dalla sua predisposizione a rispondere a cambiamenti storici con il muddling-through, la politica dei piccoli aggiustamenti. Se si vuole salvare l’Europa, però, c’è poco da aggiustare e molto da riformare. Bisogna fare un salto, già a partire dalle prossime elezioni del Parlamento europeo del maggio 2019. È la paralisi europea che alimenta le spinte centrifughe (o le minacce dei ministri finanziari dei Paesi del nord Europa). Attraverso una rinnovata leadership franco-tedesca, un gruppo di Paesi (che condividono interessi e valori, per dirla con Fritz Scharpf) deve poter avanzare verso un’unione politica, capace di garantire la sicurezza economica, militare, territoriale e sociale ai cittadini degli stati che ne fanno parte. Ciò all’interno di un mercato comune costituito anche dai Paesi che non sono invece disposti a rinunciare a quote della propria sovranità politica. Tale salto sarebbe salutare anche per gli italiani, che dovrebbero finalmente decidere a quale Europa vogliono appartenere.

Insomma, il cambiamento in corso nel sistema internazionale può costituire una opportunità per l’Europa politica. Invece di attendere il ritorno del multilateralismo alla Casa Bianca o di difendere un equilibrio europeo che non c’è più, occorre promuovere una visione innovativa dell’Europa. Tra il sovranismo distruttivo e l’europeismo conservativo c’è lo spazio per una strategia riformatrice con cui rilanciare il progetto politico europeo.

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