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Le manovre fatte a partire dai tagli di spesa

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Servizio | Opinioni del Sole

Le manovre fatte a partire dai tagli di spesa

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Da decenni si prova ad affrontare nel nostro Paese il nodo della riqualificazione della spesa pubblica. I tentativi finora messi in campo per rendere effettiva e strutturale una vera e incisiva spending review non hanno prodotto i risultati sperati. Il motivo? Tagliare la spesa costa in termini di consenso. Le stime più recenti indicano in 848 miliardi il totale di spesa pubblica nel 2018, che aumenta nel 2019 a 863 miliardi nel profilo tendenziale e a 880 miliardi in quello programmatico, inclusa dunque la manovra di bilancio 2019. Un enorme volume di risorse su cui si può e si deve intervenire.

Concentriamo la nostra attenzione su due specifiche voci di spesa: i cosiddetti Fondi perduti, che valgono 61 miliardi, e gli acquisti di Beni e servizi, inclusi i cosiddetti consumi intermedi, contabilizzati per 135 miliardi. Dentro il dato dei 61 miliardi “solo” il 36% risulta dovuto a contributi in conto capitale e ben il 64% a trasferimenti correnti erogati per la metà dalle Regioni. Si confrontino questi dati in forte aumento negli ultimi anni con la “miseria” dei 36 miliardi spesi per investimenti, ridotti di un terzo negli ultimi anni. Non sarebbe più responsabile una rapida spending review su questi fondi perduti e valutare la decisione coraggiosa di tagliarli di almeno 40 miliardi nei prossimi anni ricavando risorse senza modificare di un euro il deficit e il debito pubblico?

Molti sostengono che si tratta di “atti dovuti” e “diritti acquisiti” perché si basano su leggi del passato tuttora in vigore (oltre 450 leggi per la precisione). Ecco allora che “a legislazione vigente” è burocraticamente doveroso prevedere quelle spese anche per i prossimi anni. Ma Governo e Parlamento non hanno la primaria funzione di approvare nuove leggi e cambiare quelle vecchie? Per quel che riguarda gli acquisti di beni e servizi delle pubbliche amministrazioni, siamo passati dai 63 miliardi del 1995 ai circa 136 miliardi del 2016. Nello stesso periodo l’inflazione cumulata è stata pari al 50 per cento. Se questa voce di spesa fosse aumentata della sola inflazione (e quindi a parità di potere di acquisto) oggi avremmo una spesa di 95 miliardi e non di 136, cioè un risparmio di 41 miliardi. Anche qui, vogliamo chiederci se tutti questi 41 miliardi “in più” debbano essere mantenuti fino al 2021? O non sarebbe preferibile porsi come obiettivo di provare a dimezzare questo “di più”, risparmiando circa 20 miliardi di euro? In sintesi, potrebbero liberarsi 60 miliardi di risorse da utilizzare a copertura di qualunque proposta di aumenti di spesa e di tagli di tasse.

Vi è poi il capitolo delle tax expenditure. Da un’analisi voce per voce potrebbero rendersi disponibili circa 40 miliardi di risorse, da aggiungere ai 60 miliardi di potenziali tagli di spesa. Un totale potenziale massimo di risorse disponibili di 100 miliardi, dunque, per dare coperture finanziarie pari a circa il 5,5% del Pil. Ci rendiamo conto che una manovra di tali dimensioni non è certamente facile da attuare. Ci rendiamo però ancora più conto che con manovre dell’1% del Pil o ancor meno non si va da nessuna parte. Ecco allora che 20 miliardi potrebbero servire a non far aumentare l’Iva e le accise. Resterebbero 80 miliardi da destinare agli sgravi fiscali con un’Irpef a tre aliquote (20%,30%,40%) per 40 miliardi. Le restanti risorse andrebbero ad azzerare l’Irap per 20 miliardi e a sostenere gli investimenti pubblici per altri 20 miliardi.

Oltre a essere economicamente efficace e socialmente più equo, tale mix di interventi avrebbe un impatto sulla crescita più forte rispetto a quello prodotto dalla manovra Lega+M5S, e anche più persistente nel tempo con una crescita strutturale stabilmente attorno al 2 per cento. È necessario quindi “rovesciare” il ragionamento partendo “prima” da dove prendere le risorse e “poi” indicare dove andarle a mettere. È difficile ipotizzare che i microcambiamenti contenuti nella manovra del governo determinino un innalzamento consistente nei tassi di crescita reale. Anche al di là dei vincoli europei o della lettura negativa da parte dei mercati finanziari, la domanda da porci è se vale la pena di fare una manovra così modesta, che ricorrendo per gran parte al maggior deficit determina un profilo finanziario del Paese oggettivamente fragile e rischioso.

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