C’era qualcosa di simbolico nel fatto che la riunione annuale delle 20 economie che producono circa il 75% del reddito mondiale si tenesse in Argentina, Paese che si avvia a uscire da una spirale recessiva grazie alla cooperazione con i suoi partner commerciali e il Fondo monetario internazionale. Dieci anni fa, il primo incontro del Gruppo dei 20 si tenne negli Stati Uniti, epicentro di una crisi che si stava avvitando in una caduta della produzione e del commercio mondiali di dimensioni pari a quelle del 1929-30. Il ripetersi della Grande crisi degli anni 30 fu evitato da una efficace cooperazione internazionale. Le principali banche centrali coordinarono un’offerta di liquidità di dimensioni tali da bloccare la spirale deflazionistica. Contrariamente agli anni 30, nessuno tra i maggiori Paesi diede ascolto alle sirene del protezionismo. Si deve al prevalere di un orientamento cooperativo tra i principali governi se la crisi del 2008, pur densa di effetti negativi, non precipitò in un’altra Grande depressione con le immaginabili conseguenze.
Negli ultimi dieci anni molte cose sono cambiate. L’economia mondiale, dopo un lungo periodo di espansione, mostra segni di rallentamento. Potrebbe trattarsi di un fisiologico andamento ciclico dell’economia. La durata dell’espansione americana è prossima al massimo storico e la disoccupazione è ai livelli più bassi dagli anni 60. Non ci sono, dunque, motivi economici per forti preoccupazioni. Queste derivano dal quadro politico che potrebbe trasformare un normale rallentamento ciclico in una vera e propria recessione. Il recente “Rapporto sulla stabilità finanziaria” della banca centrale statunitense indica nella Brexit, nelle prospettive della finanza pubblica italiana e nelle «tensioni commerciali» (leggi: protezionismo) i rischi per l’economia internazionale che, ancor prima di realizzarsi, stanno generando un clima sfavorevole agli investimenti. Si tratta di rischi politici che hanno forse radici lontane, ma che si sono consolidati dal 2016 con il referendum britannico, la presidenza Trump e le elezioni italiane del marzo scorso.
I rischi politici possono essere ridotti solo dalla politica. Il G20 di Buenos Aires ha confermato l’abbandono dell’approccio multilaterale da parte dell’amministrazione americana. Donald Trump ha ostentatamente privilegiato gli incontri bilaterali. L’accordo con Xi Jinping è una tregua nell’escalation del protezionismo americano. Gli Stati Uniti si sono impegnati a non accrescere, per ora, le proprie tariffe dal 10 al 25 per cento. In cambio, la Cina aumenterà sostanziosamente le importazioni dagli Stati Uniti. L’obiettivo è ridurre lo squilibrio commerciale tra i due Paesi, ma difficilmente esso sarà raggiunto mentre avrà effetti negativi su altri Paesi. Un aumento delle esportazioni americane richiederà nuovi investimenti che faranno aumentare i flussi di capitali esteri che sostengono i consumi e gli investimenti statunitensi e sono la causa del disavanzo commerciale. Un accresciuto influsso di capitali esteri spingerà verso l’alto il cambio del dollaro, facendo lievitare, invece che diminuire, il deficit commerciale. Allo stesso tempo, l’aumento delle importazioni cinesi dagli Stati Uniti avverrà in gran parte a scapito di quelle da altri Paesi. La storia economica degli anni 30 mostra che gli accordi bilaterali ridussero il volume degli scambi internazionali senza ridurre i disavanzi delle bilance commerciali con l’estero che solo una diminuzione della domanda interna poteva mitigare.
Il G20 è stato dunque un fallimento? Rispetto al G8 di Ottawa, riunione di un club ormai di scarso significato, si è almeno ottenuta una tregua nella guerra tariffaria e si è aperta la porta a quello che potrebbe essere un serio negoziato. Anche il “bilaterale” tra Unione europea e Italia ha forse aperto uno spiraglio a maggiore cooperazione. Nell’autunno delle relazioni economiche internazionali multilaterali, nemmeno i modesti risultati di Buenos Aires vanno sottovalutati, potrebbero essere il segnale che la realtà dei fatti stia cominciando a imporsi sull’ideologia e sulle visioni a corto raggio degli interessi nazionali. Lo capiremo nei prossimi mesi.
Il G20 di Buenos Aires ha nuovamente evidenziato la debolezza internazionale dell’Unione europea, proprio quando i rischi dell’economia mondiale sono soprattutto politici e provengono dagli Stati Uniti e dall’Europa stessa. Sia che si rafforzino le tendenze al bilateralismo sia che si torni a una maggiore cooperazione multilaterale, l’interesse nazionale dei Paesi europei si promuove soprattutto dando sostanza e forza all’Unione europea nelle sedi dove si decide il futuro dell’economia mondiale. Ancora una volta, Buenos Aires ha mostrato l’ovvio: da soli, anche i più forti tra i Paesi del Vecchio continente sono del tutto marginali. Serve un G17 nel quale i 3 membri attuali del G20 siano rappresentati - non più dai propri leader e dalla Ue - ma da una sola voce, quella appunto dell’Unione europea.
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