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Le incognite della legge di bilancio

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L'Analisi|analisi

Le incognite della legge di bilancio

L’accordo trovato a Bruxelles dà il via libera a una legge di bilancio che dal punto di vista qualitativo non convince. Sia i negoziatori del governo italiano, sia i vertici della Commissione europea, sanno che non è adeguata a far uscire l’Italia dalla trappola della stagnazione in cui è finita da tempo. Non si tratta tanto dei numeri aggregati, anche se non si può escludere un aggiustamento dei conti nel corso del 2019, quanto delle linee di fondo.

Secondo i sondaggi, metà degli italiani ritiene che la manovra non serva alla ripresa.

Perché allora Bruxelles l’ha autorizzata, esponendosi a critiche vibranti da parte di altri governi e dividendosi al proprio interno? La motivazione più semplice è che la manovra rispetta i criteri minimi contabili delle regole europee e che in questo momento il coordinamento politico in Europa non consente altro che una verifica meno che formale delle regole. L’accertamento ha riguardato infatti solo l’aggiustamento strutturale del 2019, non gli anni successivi.

L’imputazione a Bruxelles, anche da parte dell’opposizione, di «aver scritto la manovra» è paradossale perché da parte della Commissione le riserve sulla sostanza sono profonde.

È facile constatare la differenza della manovra rispetto alle «raccomandazioni specifiche» pubblicate da Bruxelles a luglio. Ma un disavanzo del 2% non viola manifestamente l’avvicinamento all’obiettivo di medio termine (il pareggio strutturale di bilancio) se la crescita economica italiana sarà inferiore all’1%.

Facendo i conti, c’è forse una ragione ulteriore. L’Italia rischia nel 2019 una crescita ancora più bassa. Se fosse vicina allo 0,5%, l’aggiustamento strutturale del deficit (depurato dai fattori ciclici) sarebbe più o meno in linea con quello richiesto dalla Commissione nei negoziati informali di settembre, prima della marcia e retromarcia del governo. È probabile che alla fine si arrivi proprio lì, con minori spese per il reddito di cittadinanza, troppo difficile da organizzare in tempi brevi, e maggiori per gli ammortizzatori automatici. Nella sostanza, la legge di bilancio contiene misure quasi ingiudicabili, involucri di incerto contenuto e incerti effetti, ma se la settimana scorsa Bruxelles avesse chiesto sforzi ulteriori, avrebbe rischiato una manovra restrittiva a fronte di quello che potrebbe rivelarsi un grave rallentamento dell’economia.

Molto dipenderà dallo spread, che è sceso dopo l’intesa perché si è ricavata l’indicazione che anche in futuro, in caso di nuovi scontri frontali sul rispetto delle regole, il governo italiano cercherà il compromesso e non lo scontro. Ma il livello dello spread continua a essere sensibile alle dichiarazioni del governo. Dopo la pubblicazione a maggio di due progetti di lavoro sull’uscita dall’euro, lo spread era salito a 300 punti base che corrispondono a una svalutazione del 20% (tale era quella prevista dal piano B) su titoli pubblici che hanno una durata media di quasi sette anni. Un aumento dello spread sopra i 300 punti base avrebbe indicato l’attesa di un evento di default in tempi rapidi che si sarebbe autorealizzato. Ogni dichiarazione di Salvini, Di Maio e dei loro consiglieri che risollevi i dubbi sull’Italia nell’euro, può far rialzare lo spread, ridurre l’offerta di credito e affossare l’economia.

In effetti, intascato il via libera di Bruxelles, il riflesso anti-europeo è riemerso subito, con dichiarazioni aggressive. Tuttavia le autorità europee ritengono che l’ala dialogante all’interno del governo e del Paese abbia messo la faccia su un accordo già poco digeribile e che ora non possa rinnegarlo. D’altronde per quanto inadeguata, la legge di bilancio non è tale da creare, nei termini noti finora, danni tali da causare un disastro prima di maggio e del voto per le elezioni europee.

Oltre il breve termine, il giudizio può cambiare, ma così possono anche le dinamiche politiche. Il governo italiano è entrato nel negoziato pensando che un atteggiamento anti-europeo fosse un vantaggio politico e potesse anche dare vantaggi finanziari. Ne è uscito sapendo che ciò non è vero: il vantaggio politico della propaganda populista era molto inferiore al costo finanziario di un rischio di default del Paese. Sarà una lezione duratura? L’economia sta frenando per l’incertezza e lo spread. Se i cittadini lo percepiranno – come sembra dai sondaggi - è possibile che il costo finanziario di posizioni anti-europee diventi anche un costo politico per i partiti di governo.

Visto da Bruxelles, il raddoppio delle clausole di salvaguardia e due miliardi di accantonamenti sono una garanzia solo relativa. La lettera di impegni del governo e il conseguente esercizio di monitoring europeo (per rischio di deviazione) aiuteranno. Ma è inutile negarlo, andiamo verso una fase di fine mandato e quindi di debolezza delle istituzioni europee e del tradizionale baricentro politico franco-tedesco. Non solo la vicenda dei gilets jaunes ha pesato nella conclusione di un accordo minimo con l’Italia, ma nuovi elementi politici stanno emergendo: con la scusa dei rischi finanziari e politici rappresentati dall’Italia, da maggio scorso l’ala più dura e meno cooperativa dei governi europei, la cosiddetta ala “anseatica”, non accetta più di farsi rappresentare dalla Germania. Quest’ultima ha ancora interessi vitali nel rinsaldare l’Europa e il coordinamento politico. Gli altri vedono se stessi solo nella posizione di Paesi “creditori” che hanno a che fare solo con Paesi “debitori”. Un rapporto di forza ingannevole, ma che riflette lo Zeitgeist su scala globale, come si è visto di recente anche al G20 di Buenos Aires. Prevalgono rapporti contrari al multilateralismo e alla solidarietà anche tra i Paesi avanzati.

In questo contesto “sovranista”, si spiega perché l’accordo con l’Italia si sia dovuto limitare a verificare i requisiti contabili minimi. Ma a forza di accordi solo minimalisti, un Paese finanziariamente ed economicamente fragile come l’Italia si troverà forse meno isolato, ma al tempo stesso più solo.

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