Uno degli argomenti che ha reso facile il gioco dei sovranisti e la caratterizzazione in negativo della narrazione sull’Europa riguarda il regime di vincoli e la politica rigorista che negli ultimi tempi sono stati al centro del dibattito. Molti commentatori hanno salutato come una svolta la riflessione critica di JeanClaude Juncker sull’austerità. Il presidente della Commissione, infatti, nel tracciare un bilancio degli anni appena trascorsi, ha evidenziato come in realtà le istituzioni europee avessero ceduto all’impianto rigorista. Chi, come noi, è stato protagonista di battaglie a difesa della Grecia lottando con il coltello tra i denti in Consigli europei protrattisi fino a notte inoltrata per evitare l’estromissione di Atene dalla famiglia europea, sa che effettivamente alcuni membri della Ue sono sostenitori persino ideologici dell’austerità. Ma quella di Juncker non è certo una svolta. Se, infatti, c’è una personalità tra i vari leader comunitari che da sempre ha inteso mitigare gli effetti dell’austerità imposta soprattutto dai Paesi del Nord, questi è proprio JeanClaude Juncker. Grazie anche al suo supporto, l’Italia, tra 2014 e 2015, vinse la battaglia sulla flessibilità. Il punto centrale è che la rigidità dei parametri economici costituisce un freno allo sviluppo europeo.
Il Fiscal compact, infatti, è figlio di una visione economica eccessivamente rigida e non adatta alla stagione che stiamo vivendo. Il Pil mondiale dipende oggi in larga parte dalle possibilità di un accordo commerciale tra gli Stati Uniti di Donald Trump e la Cina di Xi Jinping. Si tratta di un accordo difficile da negoziare, ma necessario a entrambi e il pragmatismo di cui i due presidenti hanno dato ampia prova nel corso di questi anni lascia prevedere che si possano superare i punti di contrasto ancora insoluti. Dunque non siamo più noi europei a dettare le regole. Ma possiamo avere un ruolo rilevante se, finalmente, facciamo gioco di squadra anziché sprecare energie nel farci la guerra tra vicini.
Se il rigore non è servito a rilanciare l’Europa, come trovare il giusto equilibrio fra la necessità di scommettere su un piano di investimenti che dia nuovo impulso alla crescita del Vecchio continente e quella di tenere a freno un debito che è preoccupante in Italia, ma che sta diventando importante anche in diverse economie dell’Eurozona?
I parametri di Maastricht sono ampiamente convenzionali. Ha ragione chi sostiene che il 60% del rapporto debito/Pil sia eccessivo e comunque tarato più sui Paesi del Nord Europa che sulle reali esigenze di tutta la comunità. Così come sono oggettive alcune critiche che si possono muovere rispetto al passato: non aver calcolato tra gli indicatori anche il debito privato, non aver concesso ad altre economie di godere dei vantaggi riservati alla Germania per l’unificazione, aver esasperato i limiti posti al sistema del credito con il contraddittorio risultato di aver provocato crisi bancarie nella speranza di prevenirle. Ci sono stati molti errori, è innegabile. Ma il punto centrale, una volta di più, è prepararsi al domani.
Noi abbiamo combattuto e vinto la battaglia sulla flessibilità, ma non è sufficiente: come garantirne ulteriori forme a quei Paesi europei che vogliono stimolare la crescita anche ricorrendo a manovre in (limitato) deficit? Le regole europee richiedono su questo punto un aggiornamento almeno nella loro interpretazione. Sarebbe assurdo lasciare questo tema, da sempre nostro, nelle mani dei sovranisti. Quando noi chiedevamo di superare il Fiscal compact, loro chiedevano di abbandonare l’euro; adesso che stanno ripiegando sulle nostre posizioni, non possiamo permettere che siano loro a guidare una battaglia giusta e sacrosanta: più crescita, meno austerity. Io penso che l’unico compromesso possibile tra rigoristi e sostenitori della crescita possa e debba essere un accordo in cui si concedono spazi di deficit solo a chi si impegna alla riduzione della pressione fiscale, senza alcuna possibilità di deviare dalle riforme strutturali. Usare la flessibilità per i prepensionamenti o per regalare soldi a chi già fa un lavoro in nero è inaccettabile. Ma ottenere forme concordate di flessibilità in cambio di una riduzione fiscale secca è esattamente ciò che serve. L’Italia ha bisogno di una riduzione della pressione fiscale, a tutti i livelli. Ma sei credibile se combatti l’evasione, non se fai condoni. Se combatti il lavoro in nero, non se lo agevoli. Del resto, il problema dell’Italia continua a essere il fisco. Ma anche in Europa esiste un tema di omogeneizzazione delle norme fiscali che, prima o poi, diventerà centrale, non potendosi Bruxelles più permettere di oscillare tra paradisi fiscali e inferni burocratici.
Il lavoro che Mario Draghi, con autorevolezza e serietà, ha svolto negli otto anni alla guida della Banca centrale europea ha sortito sicuramente effetti positivi. Il suo «qualunque cosa serva» è stato determinante per bloccare forme di speculazione contro l’Europa e contro l’euro. Il compito che attende il suo successore, dunque, è tutt’altro che semplice. Penso, però, che dovremo domandarci in che modo la Bce possa svolgere un ruolo equivalente a quello di ultima istanza nel nuovo contesto della zona euro. Se andiamo verso l’elezione diretta del presidente della Commissione, una più marcata politica economica e fiscale, un investimento sulla difesa comune, è evidente che anche la Banca centrale europea debba essere messa in condizione di fare un nuovo passo in avanti, superando le polemiche che si sono registrate in questi anni, nello specifico da parte della Germania. Se dobbiamo dirla tutta, il sistema del credito tedesco - molto più di altri - costituisce la principale preoccupazione per la tenuta del mondo finanziario europeo. E ciò nonostante le regole dell’Unione bancaria siano state scritte con molta più cura dai funzionari tedeschi che da quelli italiani. Su questo dovremo riflettere a lungo.
Credo che i tempi siano maturi anche per una riflessione sui criteri che ci siamo imposti sull’Antitrust. Per evitare che molti settori strategici cadano sotto il controllo di realtà extraeuropee, potrebbe valere la pena allargare le rigide maglie dell’Antitrust europeo e permettere, almeno in alcuni settori, di favorire la creazione di campioni continentali in grado di reggere una concorrenza mondiale sempre più spietata. I tempi sono maturi anche per l’introduzione di una figura unica e autorevole che sia una sorta di Mister Innovazione, un commissario speciale cui devolvere tutti i poteri e le responsabilità nel settore dell’Ict. L’Europa ha provato a imboccare la strada dell’Alto rappresentante nel campo della politica estera.
Un tentativo generoso e giusto, ma che, bisogna ammettere, non è all’altezza delle aspettative e del ruolo che l’Europa dovrebbe rivestire. Sarebbe auspicabile che una figura di primo piano come Angela Merkel, che nei prossimi mesi lascerà la Cancelleria dopo tre lustri di leadership ininterrotta, potesse continuare a servire l’Europa in un’altra veste. Merkel potrebbe sicuramente essere una personalità adatta a guidare la politica estera, ma anche alla presidenza del Consiglio europeo. Quel che è certo è che un modello di commissario speciale per l’Innovazione aiuterebbe molto l’Unione a stabilire regole condivise anche con l’altra parte dell’Oceano sui protocolli per il 5G, sulla web tax, necessaria, sulle agevolazioni per le startup e per le università che producono trasferimento tecnologico, sul cambiamento della pubblica amministrazione anche attraverso la tecnologia blockchain.
Se è vero che Big data e Internet delle cose costituiscono la nuova frontiera dell’innovazione, come abbiamo ricordato, è chiaro che, per affrontare una simile sfida, la dimensione europea è molto più indicata della singola cornice nazionale.
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