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Quello che le statistiche sulla produttività non dicono

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Global view

Quello che le statistiche sulla produttività non dicono

La manifattura italiana occupa la settima posizione al mondo per valore aggiunto, la quarta per diversificazione produttiva, la seconda per competitività dell’export e ha un tasso d’investimento che è superiore a quello dei principali competitor europei, Germania inclusa. Eppure è largamente diffusa l’idea che essa sia da tempo affetta da un forte deficit di competitività, che negli anni l’avrebbe portata ad allontanarsi dalle traiettorie di sviluppo seguite dagli altri principali partner occidentali. Ultima in ordine di tempo, la Commissione europea nel recente Rapporto sull’Italia ha indicato la bassa e declinante produttività del lavoro come uno dei fattori di rischio per la sostenibilità economica del Paese.

Questa visione “pessimista” della competitività dell’Italia non tiene conto del fatto che il sistema manifatturiero è attraversato da forti disomogeneità, che rendono i dati medi sempre meno significativi (da un lato, una moltitudine di microimprese a bassa o bassissima produttività, dall’altro un blocco significativo di imprese altamente competitive che nel tempo hanno notevolmente accresciuto la loro produttività). Ma soprattutto si fonda su statistiche parziali, perché basate su stime in volume (ossia a prezzi costanti) del valore aggiunto e, a cascata, della produttività: quando la crescita di lungo periodo viene misurata in valore (a prezzi correnti), infatti, la performance relativa dell’Italia appare nel confronto internazionale tutt’altro che anomala.

Due esempi per tutti. A prezzi costanti, la manifattura italiana ha accumulato tra il 2000 e il 2017 un ritardo nella produttività del lavoro rispetto a quella francese di 31 punti percentuali; secondo le misure in valore, risulta un differenziale positivo a favore dell’Italia di 2 punti percentuali e una dinamica pressoché coincidente tra i due Paesi lungo tutto il periodo. Ancora: a prezzi costanti la forte divergenza nella crescita del valore aggiunto tra Italia e Germania si sarebbe avviata già a partire dal 2001; in valore, essa risulta invece concentrata negli anni 2010-2014, ovvero coincide con gli effetti asimmetrici della crisi dei debiti sovrani, che hanno fortemente penalizzato la domanda interna italiana ma non quella tedesca.

Perché queste immagini così diverse? Molto, a nostro avviso, ha a che fare con il modo in cui le statistiche della crescita a prezzi costanti sono in grado di cogliere i miglioramenti nella qualità dei beni prodotti venduti. Miglioramenti che ci hanno sottratto alla concorrenza di prezzo delle economie emergenti e posizionato su nicchie globali di mercato più ristrette, ossia con meno quantità, ma con un valore unitario del prodotto più alto. Il punto è che, ove si vogliano utilizzare i dati a prezzi costanti per misurare la performance nel tempo di un sistema produttivo, è necessario disporre di misure statistiche che tengano in debito conto dei cambiamenti nella qualità dell’offerta, per evitare che aumenti nei prezzi associati a strategie di riposizionamento verso l’alto di gamma vengano scambiati per inflazione. E queste misure devono essere uguali per tutti i Paesi, altrimenti ad essere falsata è la comparazione internazionale.

Ma è del tutto evidente che le statistiche internazionali non sono armonizzate. Ci sono Paesi che, ancora oggi, non utilizzano alcuno dei criteri di stima proposti dall’Ocse, altri (tra cui l’Italia) che ne impiegano soltanto uno, altri che ne impiegano due (Francia, Spagna, Stati Uniti), tre (Regno Unito), quattro (Giappone), cinque (tra cui la Germania), sei (Paesi Bassi). Ovvero, le metodologie impiegate per misurare le variazioni della qualità (e dunque dei prezzi) non sono le stesse passando da un Paese all’altro. Quali che siano i criteri preferibili, le statistiche a prezzi costanti che ne derivano non sono comparabili tra loro.

È allora impossibile stabilire se il contenuto informativo delle statistiche a prezzi costanti sia maggiore di quello del dato a prezzi correnti. E, d’altronde, perché dovrebbe essere più convincente una chiave di lettura che assume semplicisticamente che il valore aggiunto italiano si riduce perché la manifattura è “troppo inflazionistica” e dunque inefficiente (guardando alla sola competitività di prezzo) rispetto a quella che guarda alla dinamica del valore aggiunto come esito di una strategia di aumento dei valori unitari (che implica il posizionamento su fasce di mercato meno consistenti in termini quantitativi), in una prospettiva in cui la prima determinante della competitività è il miglioramento qualitativo dell’offerta? Per qualunque uomo di business una misura ottocentesca dell’output come quella a prezzi costanti è semplicemente incomprensibile, perché quello che conta per misurare l’andamento della sua impresa è il valore del suo fatturato, e non la sua semplice misura quantitativa.

Queste considerazioni non significano che l’industria italiana non abbia problemi di crescita. Ne ha molti. A partire dalla perdita di capacità produttiva dovuta alla crisi, e dalla forte eterogeneità nella performance tra le sue imprese che la crisi ha esacerbato. Il punto è che per cogliere la misura reale dei problemi serve una lettura più articolata e meno semplicistica. Solo così si potranno individuare politiche adeguate.

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