La visita di Xi Jinping in Italia (e poi in Lussemburgo e Francia) ha reso evidente la contraddizione che continua a imprigionare l’Europa: essere un grande mercato privo però di una direzione politica. In Europa, la dissociazione tra economia e politica lavora instancabilmente ai fianchi del progetto integrativo. Di fronte alle sfide esterne, ogni stato membro dell’Unione europea (Ue) risponde individualmente. Eppure, quelle sfide nascono da attori globali che perseguono strategie globali e che quindi richiederebbero risposte globali (da parte dell’Ue).
Si guardi il rapporto degli europei con la Cina. La Germania e la Francia hanno finora adottato una logica unilaterale e strettamente nazionale di scambi economici con quel Paese. L’attuale governo italiano si è messo sulla loro scia, alzando però il livello della relazione economica. Con il Memorandum firmato ieri, il settorialismo è stato sostituito da un accordo di collaborazione più organico, nel quadro di un progetto elaborato dai cinesi (la Belt and Road Initiative) con confini ancora indefiniti. È legittimo che i singoli Stati cerchino di trarre vantaggi dalle relazioni con una potenza economica come la Cina. Tuttavia, andando ognuno per conto proprio, essi avvantaggiano quest’ultima e indeboliscono l’Ue. Lo si è visto nella riunione del Consiglio europeo (dei capi di governo) che si è tenuto a Bruxelles giovedì e venerdì scorsi. L’Italia è stata criticata per le sue ambiguità nei confronti della Cina, ma i Paesi che l’hanno criticata (la Francia e la Germania) non sono stati immuni da altrettante ambiguità. L’Ue si è così divisa. Occorre cambiare prospettiva.
L’Ue rappresenta il più grande mercato e il più grande blocco commerciale al mondo. È il principale partner commerciale per 80 Paesi, mentre gli Stati Uniti lo sono per 20 Paesi. L’Ue importa dai Paesi in via di sviluppo più di quanto importino, tutti insieme, gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone e la Cina. Per le merci importate, l’Ue ha mediamente le tariffe più basse al mondo.
Più del 70 per cento delle merci importate nell’Ue hanno tariffa ridotta o nulla. Il mercato dei servizi, pur con le note resistenze nazionali, è tra più aperti al mondo. Nonostante la crisi, l’Ue ha continuato a perseguire una politica di apertura commerciale, siglando accordi multilaterali e bilaterali basati sull’apertura e il multilateralismo (da ultimi, con il Giappone, la Corea del Sud, Singapore, il Canada, mentre è in corso un negoziato con l’Australia). È evidente che il mercato europeo costituisca una gigantesca calamita per grandi potenze globali. Come la Cina. Quell’enorme mercato ha però un piccolo governo. La Commissione europea esercita un ruolo governativo nella politica commerciale, dove dispone di una competenza esclusiva (anche se costantemente minacciata sia dai governi nazionali che da organismi sub-nazionali, come è stato il caso della Vallonia che ha contestato l’accordo da essa siglato con il Canada).
Tuttavia, sul piano delle relazioni economiche internazionali, l’Ue non ha una policy per proteggere il proprio mercato interno. Finalmente, nei giorni scorsi, il Consiglio europeo ha dato mandato alla Commissione di elaborare un regolamento per sottoporre ad esame gli investimenti esteri in Europa, controllando che essi (ad esempio) rispettino il criterio della reciprocità. Era ora. Eppure, il governo italiano si è astenuto da quella decisione, riproponendo la sua ambiguità. La stessa ambiguità avuta nei confronti della politica dell’immigrazione nel dicembre scorso quando, dopo prolungate denunce dell’assenza di solidarietà degli altri Paesi nei nostri confronti, si è poi dissociato dal “Global migration compact” delle Nazioni Unite che mira a gestire in modo solidaristico i fenomeni migratori.
Se l’atteggiamento italiano è un ostacolo alla coesione interna dell’Ue, quella coesione non è però garantita dalla posizione franco-tedesca. È vero che la Commissione ha avuto l’incarico (su impulso franco-tedesco) di elaborare un quadro normativo per regolare l’entrata di attori terzi nel nostro mercato, nondimeno è anche vero che i governi nazionali (in particolare di quei due Paesi) continuano a rivendicare la primazia decisionale degli organismi intergovernativi sulle questioni collegate alle relazioni economiche internazionali dell’Ue. Dopodomani (martedì) si terrà una riunione a Parigi tra Macron e Xi Jinping, a cui sono stati invitati Merkel e Juncker, per discutere delle relazioni sino-europee. Si tratta, di fatto, di una riunione tra il leader cinese e un direttorio franco-tedesco dell’Ue, anche se la presenza del presidente della Commissione europea cercherà di dare una verniciata comunitaria all’incontro. Di fronte a un attore globale come la Cina, che preferisce trattare con singoli Paesi per imporre il proprio peso negoziale (esattamente come fanno Trump e Putin), come si può rispondere con un direttorio? La Francia e la Germania sono necessarie, ma non sono più sufficienti per guidare l’Ue. È comprensibile che Macron e Merkel abbiano richiamato il governo italiano a una maggiore attenzione sulle implicazioni sistemiche dell’accordo siglato con le autorità cinesi. Lo è assai di meno, però, che quei richiami non siano stati accompagnati da una proposta per sovra-nazionalizzare la rappresentanza dell’Ue nei rapporti economici con la Cina. Senza una governance europea indipendente dai governi nazionali, l’Ue rimarrà un nano politico che non potrà proteggere il gigante economico che ha al suo interno.
Insomma, la visita di Xi Jinping ha riproposto l’urgenza che l’Ue diventi un attore globale. Un attore globale non è la somma di 27 governi nazionali, bensì il rappresentante di un interesse europeo (espressione di una sintesi ragionevole degli interessi nazionali). Per misurarsi con l’espansionismo della Cina, con l’imprevedibilità degli Stati Uniti oppure con l’aggressività della Russia, l’Ue ha bisogno di dotarsi di una struttura di governance che riduca la dissociazione tra economia e politica. È ora che il nano politico cresca per avvicinarsi al gigante economico.
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