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America Latina campo di battaglia fra grandi potenze

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OLTRE LA CRISI VENEZUELANA

America Latina campo di battaglia fra grandi potenze

(Afp)
(Afp)

Come dimostra la crisi venezuelana, il Sud America è di nuovo terreno di gioco di potenze straniere. Il Subcontinente ha un ruolo secondario nelle vicende di Caracas, contano invece Stati Uniti, Cina e Russia con la sua proxy Cuba.

Dopo l’11 settembre gli Usa avevano perso interesse per l’America latina, dedicando un’attenzione sporadica alla regione. Eppure nel 2006 per gli Usa il mercato latino-americano valeva quasi quanto l’export nella Ue. Ma i 2/3 delle esportazioni andavano in Messico grazie al Nafta, l’accordo di libero scambio, mentre Brasile e altri Stati rimanevano relativamente scoperti in assenza di più vantaggiosi trattati commerciali.

La Cina, entrata nella Wto nel dicembre 2001, sviluppò rapidamente la sua presenza commerciale in America latina e nei Caraibi. Gli scambi con Pechino avevano un fascino irresistibile: erano una benedizione, ma si sono rivelati un limite per la crescita della regione. Da un canto, Pechino ha contributo a creare le infrastrutture per trasportare materie prime e prodotti agricoli ma, dall’altro, ha vincolato sempre più i Paesi alla dipendenza dalle commodity. Malgrado i leader cinesi durante le loro visite definissero strategici per Pechino partner commerciali come Argentina, Brasile, Messico e Venezuela, il flusso di capitali e scambi dalla Cina non assicurava di per sé un percorso sostenibile di alta crescita, come rilevato anche dalla Banca mondiale. Così l’attrattiva di Pechino ha cominciato ad appannarsi negli ultimi tempi: la sua politica di prestiti alimenta critiche, mentre le sue importazioni hanno iniziato a sostituire le industrie locali. Fare accordi con il Dragone può rivelarsi più un patto faustiano che una panacea. Ma il suo mercato di oltre 1,3 miliardi di consumatori è un richiamo irresistibile per chiunque.

L’amministrazione di George W. Bush giudicò la crescente presenza cinese nella regione la più seria sfida agli interessi americani concretizzatasi dopo il crollo dell’Urss e una minaccia alla tradizionale politica di Washington nell’emisfero, ispirata alla dottrina Monroe.

Benché sotto la presidenza Obama gli scambi con il Subcontinente si fossero sviluppati di circa il 50% dal 2008 al 2015, nell’ultimo decennio gli Usa, pur registrando un surplus commerciale, hanno perso terreno a vantaggio della Cina. Il Dragone è divenuto il principale mercato d’esportazione per Paesi come il Brasile; le banche di Stato cinesi si sono insediate in Argentina, economia sull’orlo del collasso, con l’arrivo della Bank of China che segue quello dell’Industrial and Commercial Bank of China.

Il presidente Xi Jinping ha promesso di investire 250 miliardi di dollari nella regione entro il 2019. La crescente influenza cinese allarma Washington e preoccupa che la politica di prestiti incoraggi massicci debiti e la dipendenza da Pechino.

Quando, nel 2007, la Cina mise a punto accordi per forniture di petrolio in cambio di prestiti con il Venezuela di Hugo Chávez sembrò un’intesa perfetta. Caracas aveva fra le maggiori riserve di greggio al mondo e Pechino stava per divenire il primo consumatore di energia. Dodici anni dopo, la crisi venezuelana e il sostegno allo screditato governo di Nicolás Maduro mettono a rischio il rimborso di miliardi di dollari. Pechino, oltre a joint venture come China National Petroleum Corp (Cnpc) e Petróleos de Venezuela Sa (Pdvsa), la compagnia petrolifera di Stato di Caracas, è il secondo maggior fornitore di armi dopo Mosca.

Le sanzioni imposte dal Tesoro americano su Pdvsa, pur interconnessa con l’economia statunitense, nel tentativo di sottrarre il controllo della ricchezza petrolifera a Maduro, sono un’iniziativa che potenzialmente ne limita l’abilità di ripagare i debiti a Pechino e a Mosca.

Il Cremlino ha prestato 2,2 miliardi di dollari a Caracas per comprare armi russe e ha costituito un consorzio di grandi imprese per investire nei campi di petrolio. Il Venezuela deve 6 miliardi di dollari a Mosca, metà dei quali a Rosneft, la compagnia petrolifera di Stato russa. Putin ha appena inviato uomini e aiuti militari per rinnovare il suo sostegno a Maduro.

La Russia, in una sorta di revival degli anni Sessanta, ha intensificato anche i suoi rapporti diplomatici, di sicurezza ed economici con Cuba. Mosca ha iniziato a spedire petrolio a L’Avana e si è impegnata a investire 2 miliardi di dollari nel sistema ferroviario dell’isola. Le aperture di Putin mirano chiaramente a tenere Cuba nell’orbita di Mosca, e ciò proprio quando gli Usa hanno ripreso le politiche della guerra fredda nei confronti dell’isola.

L’America latina è tornata, dunque, a essere un terreno di gioco dell’attuale confronto fra potenze. L’incombente bipolarismo Usa-Cina, rafforzato da una Russia battitore libero, lontano dal modello di divisione del mondo in blocchi su base ideologica che caratterizzò la guerra fredda, si profila in pratica come una aspra contesa di mercati e di risorse con alleanze di scopo.

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