Sono trascorsi settant’anni da quando, il 4 aprile 1949, venne firmato a Washington il trattato istitutivo della Nato. A sottoscriverlo, insieme ad altri undici Paesi, fu anche l’Italia. Oggi c’è chi si chiede per quale precipui motivi compì, a quel tempo, un passo così impegnativo nel mezzo di una difficile ricostruzione post-bellica e con un esercito a cui le clausole del trattato di pace del 1947 con le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale avevano imposto una drastica riduzione dei suoi effettivi e dei suoi armamenti.
Che si sia trattato di una scelta obbligata, ma essenziale, non c’è più alcun dubbio in sede storiografica. Ma vale la pena, dinanzi a certi ricorrenti interrogativi sulle ragioni per cui abbiamo fatto ingresso nell’Alleanza atlantica e continuato a farne parte dopo la caduta nel 1989 del Muro di Berlino, di ricordare innanzitutto come l’adesione alla Nato abbia rappresentato, per i suoi molteplici risvolti, una leva fondamentale sia per la rinascita politica del nostro Paese, accanto alle nazioni democratiche europee, sia per l’avvio del suo processo di sviluppo.
Al volgere degli anni Quaranta, l’Italia annoverava il più forte partito comunista dell’Occidente nonché un partito socialista stretto al Pci da un patto d’unità d’azione; e confinava con la Jugoslavia di Tito ancora legata alla Russia di Stalin: senza che potessimo più far affidamento su una robusta protezione della Gran Bretagna, in quanto il governo laburista era alle prese con una pesante recessione e l’incipiente decolonizzazione del suo impero. La Penisola rischiava perciò di restare una sorta di “ventre molle” in un versante strategico se Washington non avesse deciso di puntare sull’Italia per farne un antemurale, dirimpetto ai Balcani, del blocco sovietico.
La sua aggregazione al Patto atlantico assicurò all’Italia centrista della Dc di Alcide De Gasperi e dei partiti laici una quota rilevante degli aiuti del Piano Marshall nonché delle commesse militari della Nato (dopo la sconfitta nel 1955 della Cgil nelle elezioni delle Commissioni interne alla Fiat e in altri grandi gruppi industriali) che concorse, negli anni successivi, a porre le basi del Miracolo economico e del welfare.
È vero che nel marzo 1949 ci volle una seduta fiume di oltre cinquanta ore alla Camera perché il governo venisse autorizzato ad apporre la sua firma al Patto atlantico. Ma da quel momento l’Italia divenne, durante la Guerra fredda, una delle più strette alleate degli Stati Uniti giungendo nel 1958 ad accettare di ospitare nel suo territorio le rampe di lancio per missili americani di media gittata e ad assumere nel 1964 un ruolo politico di rilievo per la nomina dell’ambasciatore Manlio Brosio a segretario generale della Nato. Tuttavia la sua costante fedeltà agli impegni militari del Patto atlantico non trasformò l’Italia, anche la forte influenza della Chiesa, in un Paese tendenzialmente “guerrafondaio” (per dirla con il linguaggio della sinistra comunista). Tant’è che Enrico Berlinguer, in una intervista al Corriere della Sera del 15 giugno 1976, dichiarò di non voler più l’uscita dell’Italia dal Patto Atlantico non solo per non sconvolgere gli equilibri internazionali, ma perché considerava la Nato uno scudo per «costruire il socialismo» nel nostro Paese. Di qui la prospettiva da lui poi perseguita di un Compromesso storico con la Dc di Aldo Moro.
Ma se, dopo la fine nel 1991 dell’Unione Sovietica, la Nato ha continuato ad avere una propria ragion d’essere, lo si deve al fatto che si è orientata progressivamente verso un sistema di collaborazione militare fra i suoi partner mirante (di concerto o meno con l’Onu) sia a far valere il rispetto di determinate norme internazionali a presidio dei diritti umani sia a scongiurare la diffusione di movimenti terroristici e la deriva di alcuni Paesi verso una grave situazione interna di anarchia tale da produrre pericolosi effetti destabilizzanti in quelli contigui.
Ma oggi quel che sta mettendo in discussione la sorte della Nato (giunta frattanto a comprendere 29 Paesi) è il mutamento di prospettive avvenuto nell’America di Donald Trump: dal suo indirizzo non più multilateralista alla sua tendenza a puntare in Europa soprattutto sul Gruppo di Visegrad; dal suo predominante interesse per la competizione con la Cina nello scacchiere del Pacifico ai suoi riagganci in Africa e America Latina per contrastare la rinnovata influenza della Russia di Putin. Di qui anche, per via della richiesta della Casa Bianca ai governi europei di maggiori loro stanziamenti per la gestione della Nato, l’idea riemersa nella Ue, a quasi settant’anni dal fallito progetto della Ced (Comunità europea di difesa), di creare un proprio sistema di difesa e sicurezza comune, tanto più all’indomani del referendum sulla Brexit.
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