La flat tax all’italiana rappresenta uno dei punti cardine del contratto di Governo tra il Movimento 5Stelle e la Lega. È quindi probabile che, seppur con tempi e modalità ancora da definire, il governo cercherà una via d’uscita dall’impasse.
Un’impasse che, almeno in questa fase, sembra appesa tanto a implicazioni di tipo politico quanto a legittime incertezze sulle coperture. Le schermaglie di questi giorni fanno ben capire che M5S e Lega si giocano qui una partita decisiva. Con Di Maio che su questo terreno non intende lasciare campo libero all’alleato/avversario e che vuole conquistarsi un ruolo non subalterno – proprio ieri il Movimento si è candidato a diventare il “guardiano” della Costituzione – per evitare che sia il solo Salvini a riscuotere il dividendo della flat tax (in termini di consenso). Sulle coperture si attendono lumi che consentano un’analisi un po’ meno approssimativa del gioco delle tre carte.
Il tema che sembra invece appassionare solo pochi (e illuminati) accademici e addetti ai lavori è l’impatto di questa anomala tassa sul sistema fiscale. In 45 anni, l’Irpef ne ha viste davvero di tutti i colori. Ora ci si lamenta delle 5 aliquote, ma pochi ricordano che, al suo debutto, l’imposta sul reddito delle persone fisiche di scaglioni ne contava 32, con l’aliquota massima al 72% per i redditi oltre 500 milioni di lire. Un altro mondo. Il che è vero, ovviamente. Tanto che non c’è osservatore che non riconosca la necessità e l’urgenza di ridare all’Irpef l’equilibrio e l’efficienza perduti.
Partiamo da qui. L’Irpef è in pessima salute. Le sue malattie si chiamano, tra l’altro: progressività che funziona male; aliquota marginale piatta oltre i 28mila euro di reddito; natura impropria degli “80 euro”; eccesso di “sostitutive” (tra le quali primeggia ora la flat tax al 15-5% per le partite Iva); eccesso di detrazioni e oneri. E si potrebbe continuare. La sensazione, tuttavia, è che la flat tax – stando almeno a quel meccanismo sommariamente illustrato da (troppi) ministri, viceministri e sottosegretari: tassazione con aliquota al 15% per redditi, anche su base familiare, fino a 50mila euro – non servirà a ridare equilibrio ed equità al sistema ma, al contrario, creerà ancor più squilibri, ancor più iniquità. Si introdurrà, di fatto, un ulteriore regime di tassazione che potrebbe interessare il 75% dei contribuenti Irpef. Un regime che sembra persino altra cosa rispetto al primo modulo della flat tax, quello che si applica ad almeno 1,5-2 milioni di partite Iva con volume d’affari fino a 65mila euro (100mila euro dal prossimo anno, con aliquota al 20%).
Sicuri che la flat tax sia l’unica via per ridurre il prelievo? Sicuri che non sia più opportuno ragionare su come alleggerire il cuneo fiscale? Sicuri che la cura per migliorare la progressività sia una tassa piatta con deduzione per i redditi più bassi (i redditi elevati ne avranno comunque un enorme vantaggio)? Sicuri che la tassazione su base familiare (per altro: a quale “famiglia” si sta pensando?) non abbia bisogno di ben altri strumenti – dallo splitting al quoziente – per non diventare un boomerang e favorire i nuclei monoreddito o i single? Più in generale: qual è il progetto complessivo di flat tax? Si può accettare l’idea di una riforma realizzata per moduli successivi, anche in tempi lunghi, come ha sotttolineato il presidente del Consiglio Conte, ma il disegno finale deve essere chiaro sin d’ora. Altrimenti si rischia che la nuova flat tax serva solo a sferrare il colpo mortale alla vecchia e malandata Irpef, senza sapere bene che cosa davvero prenderà il suo posto.
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