Il Def rappresenta un utile esercizio di realismo, dopo le molte promesse e illusioni delle settimane e dei mesi scorsi. Il tasso di crescita del Pil scende nel 2019 dall’1% della previsione precedente allo 0,2 per cento. La conseguenza, pressoché inevitabile, è l’aumento del deficit, dal 2% del Pil al 2,4 per cento. Il rapporto fra debito e Pil, che nel 2019 sarebbe dovuto scendere, sale dal 132,2% del 2018 al 132,8 per cento. Nel 2020 le cose andrebbero un po’ meglio perché vi sarebbe una ripresa del Pil allo 0,8% e una riduzione del deficit (al 2,1%) e del debito (al 131,7%).
Le questioni che si pongono sono due. La prima riguarda il realismo del quadro macroeconomico e la seconda la credibilità del piano delineato dal governo, che prevede un graduale rientro dal deficit sino all’1,5% nel 2022 e al pareggio di bilancio successivamente.
Sul primo punto, il ministro e i suoi tecnici hanno fatto un lavoro diligente, prendendo a riferimento le previsioni che prevalgono in questo momento e dando una valutazione realistica dei provvedimenti del governo. Va detto però che la previsione di una pur modesta crescita nella media del 2019 sconta una buona ripresa nella seconda parte dell’anno. È ragionevole valutare che il Decreto crescita e lo Sblocca cantieri possano incidere sul Pil di quest’anno per circa lo 0,1% del Pil. Ragionevoli, almeno per il 2019, appaiono anche le valutazioni degli effetti delle due misure del Reddito di cittadinanza e di Quota 100: esse avrebbero un piccolo effetto positivo sul Pil (+0,2%) e negativo sull’occupazione (-0,2%). Va peraltro osservato che questi sono gli effetti delle due misure senza considerare le coperture; se si considerassero anche queste gli effetti sarebbero più piccoli e potrebbero essere negativi anche sul Pil.
Per il 2020 invece la ripresa appare piuttosto improbabile se non si risolve il problema che ha dato origine alla recessione che è attualmente in corso e cioè l’aumento dello spread e la connessa sfiducia complessiva sul sistema Italia. Perché ciò si realizzi occorre che il pur graduale piano di rientro dal deficit delineato nel Def abbia il pieno e coerente appoggio dell’intero governo.
E qui veniamo al punto chiave, la credibilità del piano. Per quanto riguarda l’anno in corso, il problema principale riguarda le privatizzazioni, che dovrebbero contribuire per l’1% del Pil alla riduzione del debito pubblico. In assenza di queste entrate, il debito pubblico salirebbe dal 132,2% del 2018 al 133,8% nel 2019, il che sarebbe un segnale preoccupante. L’altra incognita sul 2019 è rappresentata dal congelamento di spese per 2 miliardi che è previsto nella legge di bilancio nel caso di sforamento dell’obiettivo di deficit (2%). Per quanto sia una misura già decisa, è probabile che la sua attivazione, che dovrebbe avvenire entro luglio, crei forti tensioni nella maggioranza. Va poi valutato il rischio che la scarsa credibilità degli impegni di risanamento del bilancio mantengano elevato lo spread e impediscano l’ipotizzata ripresa nella seconda parte dell’anno. Per il 2020, la riduzione del deficit dal 2,4% di quest’anno al 2,1% sconta la ripresa del Pil di cui si è detto, la piena attivazione della clausola Iva per 23 miliardi e il rinvio dell’idea di introdurre una qualche forma di flat tax e di qualunque altra misura espansiva.
Qui siamo ancora nel buio totale, tanto più che opportunamente il Def contiene una valutazione realistica dei possibili proventi della spending review: 2 miliardi nel 2019, 5 nel 2020 e 8 nel 2021. In astratto, si potrebbe fare di più, ma ciò richiederebbe una forte volontà politica che sino a ora non si è palesata.
Il punto è che è praticamente impossibile registrare il rallentamento della crescita economica e, al contempo, produrre spazi di manovra per disinnescare le clausole di salvaguardia e realizzare le varie promesse non ancora mantenute, senza metter mano a una revisione della spesa enormemente più severa di quella prevista, realisticamente, nel Def.
Alla luce di queste considerazioni, come si svilupperà il confronto con la Commissione europea? È improbabile che ci venga
richiesta una manovra correttiva in corso d’anno perché le regole europee consentono di tenere conto del fatto che l’economia
sta andando male. Tuttavia, problemi potrebbero emergere qualora il saldo nominale si avvicinasse alla soglia del 3% già quest’anno
- se, per via dell’elevato spread, la crescita sarà inferiore alla previsione - per poi superare il 4% l’anno prossimo. Se
dunque non arriveranno presto segnali di ravvedimento da parte del governo e il costo del debito rimarrà, come è ora, superiore
al tasso di crescita dell’economia, il rischio molto concreto è quello che si avveri lo scenario pubblicato ieri dall’Fmi:
un avvitamento verso l’alto del rapporto debito/Pil verso il 140 per cento. In questo caso, la Commissione non potrebbe non
intervenire, ma prima, ovviamente, interverrebbero i mercati. Occorre dunque una riflessione molto seria sui rischi che incombono
e su dove si intenda portare l’Italia.
@lorenzocodogno
@GiampaoloGalli
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