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Ilva, la lezione del realismo industriale e politico

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Ilva, la lezione del realismo industriale e politico

Lezione di realismo industriale. E politico. L'Ilva è una equazione – complessa e di difficile risoluzione – con cui si sono misurati cinque governi: Monti, Letta, Renzi, Gentiloni e Conte.

Le parti che compongono questa equazione, a loro volta, contengono incognite di tipo politico e giuridico, ambientale e industriale. Proviamo ad astrarci dal tema ambientale, anche se rimane il più doloroso: alcuni indicatori ambientali restano costanti, altri indicatori – come la diossina – presentano nelle ultime settimane dei picchi, in un punto di rilevazione simbolicamente importante come la masseria Carmine fra, Taranto e Statte, nota per l'abbattimento – avvenuto anni fa - di centinaia di capi di bestiame avvelenati dall'inquinamento. Proviamo ad astrarci dal tema giuridico, perché la questione della manleva – la deresponsabilizzazione di manager e commissari, senza la quale nessuno avrebbe comprato l'Ilva e nessuno se ne sarebbe occupato professionalmente – è ancora tutta da chiarire nella sua persistenza o nella sua cancellazione.

Concentriamoci, invece, sulla componente politica e sulla componente industriale. I Cinque Stelle hanno costruito la campagna elettorale a Taranto su una unica opzione: la chiusura dell'impianto. Non vi sono state modulazioni di questa opzione. Vi è stata – va ripetuto - questa sola opzione. Questa univocità – nonostante la moderazione tattica dei vertici nazionali, che hanno fatto dire ieri a Di Maio “io non ho mai voluto la chiusura” – è stata evidente durante la campagna elettorale, quando tutti i candidati dei Cinque Stelle si sono mossi secondo un unico schema: la chiusura, appunto. Allora nessuno – ma proprio nessuno – da Roma li ha frenati. Sulla base di questa posizione, alle ultime elezioni politiche i Cinque Stelle hanno ottenuto quasi il 50% dei voti e hanno eletto cinque parlamentari.

A Taranto, nel pomeriggio di mercoledì, per ricucire con una comunità lacerata e infuriata con i Cinque Stelle, Di Maio è arrivato con altri quattro ministri grillini: Giulia Grillo (salute), Sergio Costa (ambiente), Barbara Lezzi (mezzogiorno) e Alberto Bonisoli (beni culturali).

Il problema è che quella promessa elettorale non era realistica. Non era realistica perché chiudere l'Ilva significava segare le sedie del tavolo su cui era posato il contratto di cessione ad Arcelor Mittal, con un doppio effetto: nessun investitore internazionale avrebbe mai più fatto una operazione in Italia in cui una controparte fosse pubblica; Arcelor Mittal avrebbe chiesto i danni. Ora i Cinque Stelle – nella liturgia dei tavoli permanenti e delle fasi due che rappresentano un grande classico della vicenda italiana, fin dagli anni Cinquanta – promettono di inserire la specializzazione siderurgica all'interno di un insieme di specializzazioni produttive più ampie e diversificate.

Esattamente quanto fatto dal Governo Renzi, che per primo andò a prendere soldi già esistenti su vari fronti, li “impacchettò” e fece l'operazione di comunicazione politica di destinare un miliardo di euro sulla città di Taranto. Di quel miliardo di euro – non di nuova fonte, già ai tempi di Renzi, ma già allora di nuovo “impacchettamento” – restano 700 milioni da spendere. Va detto con onestà intellettuale: il Governo Conte, con qualche accorgimento diverso, fa quello che ha fatto il Governo Renzi e che ha proseguito il Governo Gentiloni. E fa quello che suggerirebbe qualunque tarantino o qualunque osservatore che trascorra almeno una settimana in questa città: mettere soldi – giustamente – sulla meravigliosa e scalcinata Città Vecchia, mettere soldi sul museo archeologico, mettere soldi sull'architettura umbertina, costruire percorsi di marketing per valorizzare il turismo che, a poche decine di chilometri dalla principale città industriale del Mediterraneo, ha spiagge di una bellezza abbacinante e produce vini oggi ben quotati sul mercato internazionale.

Realtà. Realismo politico: che vuol dire continuità. Realismo industriale: l'Ilva non si può chiudere. E, aggiungiamo noi, non si deve chiudere, perché la chiusura produrrebbe danni occupazionali e ambientali maggiori degli attuali (ricordate Bagnoli?). Realismo economico: costruire una diversificazione produttiva valorizzando quello che c'è e confidando sullo spirito imprenditoriale degli uomini e delle donne di questa parte del Sud. Realismo politico: fai quel che devi, accada quel che può. In continuità, appunto.

C'è, poi, il tema industriale. Che è un tema complesso e, oggi, troppo sottovalutato. E su cui tutto potrebbe di nuovo complicarsi. Ogni mese Arcelor Mittal perde soldi. Difficile quantificare. Ma non stupirebbe una perdita intorno ai 20 milioni di euro al mese. Non servono informazioni riservate. Basta sapere come funziona un impianto industriale come quello di Taranto. Oggi l'acciaieria viaggia a un ritmo manifatturiero che proietta, sull'anno, una produzione di poco più di quattro milioni di tonnellate. Il punto di pareggio industriale è lontano. Va bene che Arcelor Mittal ha la solidità finanziaria per assorbire le perdite. Ma, di certo, anche questo elemento verrà considerato, quando alla fine del periodo di affitto – ancora un anno deve trascorrere - il contratto andrà convertito nella cessione di proprietà. Di nuovo: il realismo. Realismo industriale: i numeri sono numeri. Realismo politico: rispettare gli accordi – tutti, anche quelli alla base delle scelte di investimento, come la manleva – è un fattore di stabilità dello scenario di Taranto. Se, poi, invece in questo caso la politica sceglierà di rinunciare al realismo, la realtà cambierà. Non sappiamo come. Ma cambierà.

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