Recenti scelte e dichiarazioni di leader politici tedeschi hanno riaperto la discussione sull’identità della Germania. Rispondendo qualche settimana fa ad Emmanuel Macron, Annegret Kramp-Karrenbauer (presidente del principale partito di governo, la CDU) è stata addirittura provocatoria quando ha chiesto alla Francia di rinunciare al seggio di sicurezza delle Nazioni Unite o alla sede di Strasburgo del Parlamento europeo, in assenza di qualsiasi contro-partita tedesca.
Alla riunione del Consiglio europeo della settimana scorsa, di fronte all’ingiustificabile indecisione britannica a implementare l’Articolo 50 del Trattato di Lisbona, Angela Merkel ha assunto una posizione così accondiscendente verso i britannici da opporsi platealmente alla posizione francese (che invece pretendeva dai britannici una maggiore coerenza con la scelta di lasciare l’Unione europea). Alla assemblea del Partito popolare europeo di un mese fa, la Cdu di Annegret Kramp-Karrenbauer ha spinto per una soluzione compromissoria nei confronti del partito sovranista ungherese di Viktor Orban (che fa parte di quel partito), promuovendo la sua “auto-sospensione” temporanea contro la richiesta di espulsione sostenuta invece dai partiti cristiano-democratici del nord Europa.
Di fronte a queste e ad altre posizioni, non pochi osservatori si sono domandati se la Germania abbia smarrito la propria vocazione europeista. In incontri che ho avuto recentemente con studiosi ed imprenditori americani è emersa con regolarità la preoccupazione sul nuovo corso della politica tedesca. George Soros ha ricordato l’intervento che fece già nel 2017 al Brussels Economic Forum, quando sostenne che, che dopo l’esplosione della crisi finanziaria, «la Germania riunificata non si è più sentita politicamente motivata né ricca abbastanza per rimanere il motore dell’integrazione». Robert Kagan ha addirittura scritto che non si può escludere la rinascita di un nuovo nazionalismo tedesco. Cosa sta succedendo dunque in Germania?
La Germania europeista post-bellica è il risultato di condizioni geo-strategiche che sono, oggi, minacciate. La Germania è uscita dal dramma della sua sconfitta militare e morale attraverso l’integrazione nel sistema occidentale ed europeo. Attraverso quell’integrazione, le leadership tedesche hanno potuto rilegittimare internazionalmente il loro Paese, oltre che ricostruirlo economicamente. Grazie al nuovo sistema regolativo multilaterale, la Germania ha potuto promuovere la sua economia basata tradizionalmente sulle esportazioni, senza generare conflitti con altri Paesi come era avvenuto prima della guerra. Oggi la Germania è il Paese con il surplus più alto al mondo di partite correnti, una macroeconomic imbalance che eccede di gran lunga i limiti previsti dal Patto di stabilità e crescita. Nello stesso tempo, grazie al sistema di difesa transatlantico, la Germania ha potuto garantire la sua sicurezza e quindi realizzare la riunificazione dell’ottobre 1990 in un quadro di reciproche garanzie con gli altri Paesi europei (Francia in primo luogo). Con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca nel 2016, tale contesto economico e militare non è più garantito. La guerra commerciale sta prendendo il posto dell’apertura dei mercati, la garanzia militare della Nato è messa in discussione da un’America catturata dalla furia sovranista. Si sta così indebolendo il principale ancoraggio economico-militare della Germania post-bellica. La guerra dei dazi è destinata a colpire la sua economia basata sull’export, l’aggressività russa è destinata a riaprire la questione della sua ri-militarizzazione.
In un mondo che sta divenendo “nazionalista”, non si può escludere che anche la Germania finisca per diventare tale. Dopotutto, il nuovo partito nazionalista, Alternative für Deutschland, ha conquistato un terzo dei seggi del Bundestag nelle elezioni del 2017. Ma soprattutto quel partito sta condizionando, con la sua stessa esistenza, l’agenda europea del Paese. Da quando l’Alternative è divenuta elettoralmente competitiva, né Angela Merkel né Annegret Kramp-Karrenbauer hanno più avanzato proposte di riforma dell’Ue e dell’Eurozona in particolare. A Berlino, si parla sempre meno di euro-budget, tassazione europea, ministro delle finanze europeo, unione bancaria, politiche anticicliche. Un’introversione culturale, oltre che politica, che coinvolge anche il Partito socialdemocratico di Andrea Nahles, ormai incapace di esprimere un pensiero che abbia a che fare con l’Europa. Lo stesso ministro socialdemocratico delle finanze, Olaf Scholz, è difficilmente distinguibile dalla sua cancelliera. Si sta ripetendo a Berlino la stessa sindrome che ha condotto al dramma di Londra. Dovendo scegliere tra l’interesse di partito e l’interesse dell’Europa, sia Theresa May che Angela Merkel (e ancora di più Annegret Kramp-Karrenbauer) privilegiano il primo a danno del secondo. Nessuna di loro è in grado di pensare ad una diversa equazione politica tra i due interessi.
Insomma, è indubbio che la Germania sia sottoposta a pressioni che stanno sfidando la sua tradizionale predisposizione europeista. Anche se quest'ultima si era già trasformata a partire dalla riunificazione dell’ottobre 1990. Da allora, infatti, si è progressivamente affermata una Germania più consapevole della propria forza e meno timorosa di affermare i propri interessi nazionali. Tuttavia, la Germania continua ad essere il Paese che ha più beneficiato della moneta unica, che ha più massimizzato i vantaggi dei mercati aperti, creando catene di valore che la collegano a buona parte dei Paesi dell’Est europeo oltre che alle aree del centro-nord italiano. Così, la disintegrazione di questa Europa sarebbe, per la leadership tedesca, un fallimento nazionale. Ecco perché la Germania non può diventare anti-europeista, anche se il suo europeismo è diventato conservativo. La politica tedesca è cambiata, come sostengono molti. Ma è cambiata perché è guidata non da nuovi Junkers, ma da capi di partito che guardano all’Europa come gli amministratori di un condominio. È questo, mi sembra, il problema tedesco che richiede una soluzione.
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