Domani, quando varcheremo la soglia del Lingotto, a Torino, e ci sentiremo dentro la più importante manifestazione che in Italia celebra i libri, sia pure accompagnandosi a polemiche di tipo politico più che letterario come quest’anno, dovremmo ricordarci di quella frase che Michail Bachtin inserisce a un certo punto in Estetica e romanzo (1979): «L’attività dell’autore diventa attività di valutazione che colora tutti gli aspetti della parola: la parola insulta, accarezza, è indifferente, umilia, adorna». La frase non pretende di svelare la natura dei libri, né di elogiare il mestiere di chi tramuta la scrittura in qualcosa di concreto, fatto di pagine, copertina e inchiostro; non azzarda previsioni sul futuro della carta o sui pericoli, più o meno sottintesi, che si nascondono nella potenzialità di un annunciato cambio epocale (dall’editoria cartacea a quella digitale), argomenti che hanno tenuto banco in anni da poco trascorsi e ormai tramontati. Tuttavia ci obbliga a pensare che dietro ognuno di quegli oggetti al centro dell’attenzione per i prossimi cinque giorni, da domani al 13 maggio, quando le sale della Fiera del Libro si riempiranno di scrittori, intellettuali, addetti ai lavori e curiosi visitatori, ci sono individui in cui l’esercizio di leggere e scrivere coincide con quello che Bachtin chiama «attività di valutazione».
Valutare equivale a compiere un’operazione interpretativa e selettiva, dunque un’azione che presuppone scelte mirate a escludere o a includere, a partecipare di una condizione etica che manifesta le sue potenzialità intorno e attraverso le parole, strumenti a cui Bachtin assegnava un ruolo contraddittorio nei suoi estremi. Proviamo ad adottare lo schema del filosofo russo, modificando i termini del discorso. Forse in nessuna epoca i libri sono stati semplici contenitori di storie, mai però come nella nostra si avverte il bisogno di andare oltre la semplicistica idea che essi siano magazzini da riempire con il racconto di vicende remote o contemporanee, oltre cioè la fruizione consolatoria di un testo o, peggio ancora, da passatempo. I libri sono certamente un modo per riempire le attese, ma questa visione rischierebbe di aggiungere altri lettori ai tanti che si sono smarriti per strada: il nostro presente fornisce passatempi di più immediata accessibilità, come la rete o i social. Dunque non è su questo terreno che i libri ritornano a essere competitivi.
Osserviamoli allora sotto un altro punto di vista, magari poco ortodosso e frequentato, ma probabilmente più utile nei suoi risvolti pragmatici ed economici. Osserviamoli cioè come sistemi verbali adatti a decodificare - a trasferire da un piano all’altro, a tradurre - certi fenomeni che stanno sotto gli occhi di tutti e che spesso non sappiamo più intercettare se non attraverso i linguaggi complementari a quelli della nostra tradizione. Penso, per esempio, all’enorme bacino di scritture che galleggiano virtualmente in rete e che spesso vivono pochi attimi per poi lasciarsi soffocare dall’arrivo scomposto di altre scritture, destinate a prendere il sopravvento in nome del principio secondo cui più si grida e più si ricevono attenzioni. Un po’ come la bulimia editoriale che agisce per moltiplicazioni e non per addizioni. Nella rete o sui social non troviamo le esperienze che ci aiutano a capire la nostra identità. Intercettiamo semplicemente narrazioni empiriche ed emotive che soddisfano la curiosità momentanea. Per cercare qualcosa che aiuti a posizionarci in un contesto che sono le porzioni di mondo che ci è stato assegnato, bisognerebbe ricorrere alla loro natura valutativa, come indicava Bachtin, cioè alla capacità che i libri - essi solo - hanno nell’aiutarci a capire, nel rappresentare noi a noi stessi, secondo un procedimento di autovalutazione. Tradurre non significa semplicemente trasporre da una lingua all’altra, ma declinare sotto altre forme il bisogno di comprendere la complessità in cui viviamo, certo non meno esasperata di altre stagioni e tuttavia insidiosa nei suoi aspetti più contraddittori.
Visti in questo modo, i libri potrebbero rappresentare un sistema di ponti e di cavalcavia, diventando un’esperienza contromano rispetto a un tempo, questo nostro, che erige muri per differenziarsi e diffonde paure per giustificare l’intolleranza. In fondo da anni continuiamo a domandarci quale possa essere il destino dei libri e come mai la fascia dei lettori si assottigli sempre di più. Qualcosa indica che probabilmente, se restiamo alla nozione originaria, gli individui avvertono sempre meno l’esigenza di cercare storie là dove tradizionalmente si trovano. Al contrario, essi chiedono alla scrittura il compito di fare da tramite tra la propria esperienza esistenziale e ciò che risulta incomprensibile, intraducibile, non decodificabile. Sempre più lettori, insomma, cercano in rete e sui social le storie per distrarsi e nei libri, invece, le storie per ritrovarsi o per autoanalizzarsi. Probabilmente sta qui, più che nell’avvento delle scritture digitali, il mutamento epocale annunciato qualche anno fa e mai del tutto attuato.
© Riproduzione riservata