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Relazioni industriali moderne per tutelare i salari più bassi

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Società

Relazioni industriali moderne per tutelare i salari più bassi

(Ansa)
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Ha senso introdurre oggi in Italia un salario minimo prestabilito per legge?

La domanda non è oziosa, se solo si ricorda che nel nostro sistema è già di fatto osservata una retribuzione minima inderogabile. I giudici del lavoro, ai quali il Codice civile conferisce a certe condizioni il potere di determinazione della retribuzione, considerano da tempo applicabili a tutti i lavoratori i minimi tabellari previsti dalla contrattazione collettiva, individuando in essi la retribuzione sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia «un’esistenza libera e dignitosa», in base al precetto di cui all’articolo 36 della Costituzione.

Entrambi i disegni di legge in tema di salario minimo recentemente presentati al Senato intendono tuttavia introdurre una retribuzione oraria minima svincolata da quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali (la somma ammonta a 9 euro: lordi secondo un Ddl, netti secondo l’altro), ponendosi quasi “in competizione” con essi. Secondo l’Inps (cfr. Francesca Barbieri, ilsole24ore.comdel 13 marzo 2019) l’introduzione di un salario minimo di 9 euro lordi porterebbe a un aumento della retribuzione oraria per circa il 22% dei lavoratori del settore privato (26% donne, 21% uomini).

I rischi di una tale operazione sono evidenti.

In primo luogo il pur condivisibile intento di introdurre una regolamentazione difensiva dei salari più bassi può iniettare nel mercato del lavoro nuove dosi di rigidità, stabilendo importi che nel caso di specie ricalcano i minimi retributivi applicati in Germania, ma non tengono conto della effettiva produttività delle imprese italiane, che come è noto è cresciuta nell’ultimo periodo a un ritmo molto inferiore a quello medio dell’Unione europea. Parimenti rigidi appaiono i meccanismi di progressivo incremento dei minimi retributivi di legge previsti in uno dei Ddl (adeguamento in base all’indice dei prezzi al consumo - quasi una nuova forma di “scala mobile” - e decretazione ministeriale finalizzata anche all’incremento dei salari superiori al minimo).

In secondo luogo appare probabile, almeno in alcuni settori e/o aree geografiche, una compressione del ruolo delle organizzazioni sindacali, che non a torto rivendicano la centralità del ruolo della contrattazione collettiva in ogni nuova forma di protezione dei salari.

Cionondimeno, la domanda di tutela delle retribuzioni minime in un tessuto economico indebolito e frammentario come quello italiano appare reale e pressante, se solo si pensi a tematiche come quelle dei contratti collettivi “pirata” e alle istanze di tutela dei nuovi lavori organizzati su piattaforme digitali (cfr. da ultimo Claudio Lucifora su Il Sole 24 Ore del 2 maggio 2019).

Un salario minimo difensivo ha quindi senza dubbio una sua logica, ma non può funzionare se non supportato da un moderno sistema di relazioni industriali. Se lo scopo è quello, giusto, di aumentare i salari minimi (anche per prevenire il paradosso dei livelli contrattuali retribuiti meno del Reddito di cittadinanza), nessuna ricetta può eludere i temi della rappresentanza sindacale e della produttività.

Sotto il primo profilo, i tempi appaiono ormai maturi per la piena attuazione per via legislativa dell’articolo 39 della Costituzione: sindacati muniti di personalità giuridica potrebbero finalmente stipulare, in base al loro potere di rappresentanza, contratti collettivi di lavoro con efficacia generalizzata nei confronti dei lavoratori delle categorie di appartenenza, senza ulteriore bisogno di supplenza legislativa o giurisprudenziale, e allo stesso tempo proteggendosi dalla concorrenza al ribasso di organizzazioni sindacali meno rappresentative.

Sotto il secondo profilo, sarebbe auspicabile una minor diffidenza delle parti sociali nei confronti della cosiddetta contrattazione di prossimità, strumento introdotto nel 2011 che consente alla negoziazione a livello aziendale o territoriale di introdurre ampia flessibilità nella regolamentazione dei rapporti di lavoro, anche su aspetti centrali quali mansioni e orari, e che può giocare un ruolo decisivo nell’innalzamento dei salari minimi a fronte di effettivi aumenti di produttività.

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