Non si contano, ormai, le voci contrarie alle richieste di autonomia differenziata avanzate da alcune Regioni del Nord, che vengono soprattutto rivolte agli aspetti finanziari e fiscali del processo devolutivo, e alle relative ricadute sugli assetti costituzionali complessivi e sui diritti dei cittadini (da ultimo Vincenzo Visco sul Sole 24 Ore del 4 maggio).
Si tratta tuttavia di un ventaglio di critiche che appaiono contraddittorie e tra loro inconciliabili, forse frutto, più che di una pacata e obiettiva analisi, di pregiudizi e di una visione conflittuale tra le istanze meridionaliste di statalizzazione dei centri di spesa in ottica redistributrice e le esigenze autonomistiche espresse non solo dalle rappresentanze politiche dei ceti del Nord, ma dalle stesse popolazioni che sono state chiamate (in due casi su tre) a esprimersi mediante un referendum.
Il timore, o meglio l’accusa, è che le Regioni che chiedono maggiore autonomia vogliano in realtà soltanto appropriarsi di maggiori risorse, a scapito delle altre Regioni e dei diritti alle prestazioni pubbliche di tutti gli altri italiani.
Alcuni commentatori sostengono che il passaggio dalla spesa storica ai fabbisogni standard, per le funzioni che verrebbero trasferite alle Regioni, darebbe luogo a un vulnus ai diritti sociali, giacché il gettito aggiuntivo per le tre Regioni del Nord andrebbe a scapito di tutte le altre. Eppure il criterio in questione appare privo di alternative, essendo lo stesso articolo 1 della legge 42/2009, che attua l’articolo 119 della Costituzione, a chiedere di «sostituire gradualmente, per tutti i livelli di governo, il criterio della spesa storica» a favore dei fabbisogni standard, così da far prevalere logiche di efficienza e responsabilità, nonché una maggiore equità di trattamento delle diverse popolazioni. Non si comprende, dunque, sotto quale profilo la norma finanziaria prevista nelle bozze di intesa, che indica proprio un percorso volto al superamento della spesa storica e all’approdo ai fabbisogni standard violerebbe i principi costituzionali.
Oggi è proprio il finanziamento delle funzioni in base alla spesa storica a essere fonte di diseguaglianze, oltre che di inefficienze. Si sostiene che la spesa pro capite delle Regioni del Nord sarebbe superiore a quella delle regioni del Sud: se fosse vero, dovrebbe allora essere salutata con favore, proprio nella prospettiva meridionalista e redistributrice, la transizione verso i fabbisogni standard, posto che questi farebbero venir meno l’ingiusto privilegio di cui godono le Regioni richiedenti maggiore autonomia.
Ma il punto è che quest’affermazione è tutta da dimostrare, atteso che i dati della spesa pro capite regionalizzata elaborati dalla Ragioneria generale dello Stato collocano le tre Regioni del Nord agli ultimi posti della graduatoria, che vede in realtà favoriti altri gruppi, ovvero le Regioni a statuto speciale e alcune Regioni del Mezzogiorno. Più variegato è invece il quadro che emerge dalle elaborazioni dei Conti pubblici territoriali, da dove si evince comunque, ad esempio, che per il Veneto «il valore della spesa per abitante risulta molto piu contenuto rispetto a quello del Centro Nord», collocandosi su livelli paragonabili a quelli di molte Regioni del Mezzogiorno e aldi sotto della media nazionale.
D’altra parte si protesta che la norma transitoria prevista dalla bozza di intesa, secondo cui fino alla definizione dei fabbisogni standard la spesa storica regionalizzata, utilizzata inizialmente come parametro del finanziamento, dovrebbe essere sostituita dalla media nazionale della spesa statale pro capite, avrebbe l’effetto di attribuire maggiori risorse alle Regioni che chiedono autonomia, ma ciò contraddice sia l’idea che oggi tali Regioni siano favorite dalla spesa storica, sia il convincimento (espresso da Visco nell’articolo citato) secondo cui il metodo più corretto e razionale per finanziare gli enti decentrati dovrebbe essere quello di prevedere dotazioni pro capite uguali per tutti gli enti.
Viene infine messo in discussione il principio di territorialità delle imposte, cioè il diritto dei territori più ricchi ad avere una maggiore disponibilità di risorse, ma si tratta di un principio che trova addentellati nell’articolo 119 della Costitizione, che contempla compartecipazioni delle Regioni al gettito dei tributi erariali maturato sul loro territorio. Inoltre, una volta assicurati a tutti i cittadini i diritti fondamentali e i livelli essenziali delle prestazioni, attraverso il finanziamento del fondo perequativo, è difficile contestare la legittima aspettativa di ogni territorio, così come di ogni persona, a beneficiare almeno in parte dei frutti del proprio lavoro e impegno, senza dovervi rinunciare in toto in ossequio a politiche distributive ugualitaristiche di ispirazione livellatrice, che ancora una volta metterebbero a repentaglio il circuito dell’efficienza e della responsabilità individuale e dei singoli territori.
Stravagante appare infine il rimprovero, mosso alle Regioni del Nord, di aver chiesto maggiori quote delle imposte erariali per i loro territori, e mai maggiore autonomia e responsabilità fiscale: è nota infatti la posizione restrittiva della giurisprudenza costituzionale, fin dalla sentenza 102/2008, che di fatto impedisce alle Regioni a statuto ordinario di stabilire tributi propri, non essendovi presupposti impositivi che non siano già “occupati” da tributi statali.
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