In pagina presentiamo la prefazione che Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria, ha scritto per il volume Per una moderna cultura d’impresa. Le idee e l’opera di sei presidenti di Confindustria (1946-1992)
Costa, Lombardi, Agnelli, Carli, Merloni, Pininfarina: tanti anelli di una catena che col passare del tempo si è andata rinforzando grazie al contributo che ciascun presidente ha saputo dare al formidabile corpo intermedio che oggi mi trovo a guidare con orgoglio e umiltà.
Nei quasi cinquant’anni che il saggio di Valerio Castronovo abbraccia - dal 1946 al 1992 - sono avvenute e sono cambiate molte cose. Le macerie del dopoguerra, morali e materiali, si sono trasformate con il miracolo economico e il suo consolidamento in forti istituzioni, fabbriche e case.
Confindustria c’è sempre stata. E ha accompagnato la crescita del Paese, i suoi alti e i suoi bassi, senza mai far mancare il suo contributo di idee, di iniziative, di uomini. Con un impegno rimasto stabile, per una moderna cultura d’impresa, come opportunamente il titolo di questo libro evidenzia.
Ciascun presidente tra quelli qui ricordati ha saputo vivere lo spirito del suo tempo lasciando un segno indelebile che è facile rintracciare nella storia di una nazione che, da povera e agricola, è diventata in pochi anni la seconda manifattura d’Europa, una delle prime potenze industriali al mondo. Se tutto questo è potuto accadere è per lo sforzo collettivo compiuto da uomini e donne che, per quanto di idee politiche differenti o espressione d’interessi contrastanti, sapevano individuare obiettivi comuni. Senza mai perdere di vista l’orizzonte dello sviluppo.
Emblematica l’identità di vedute di due uomini diversissimi ma accomunati dallo stesso impegno nel servire il Paese. Il rappresentante dei padroni Angelo Costa e il capo della Cgil Giuseppe Di Vittorio - del Nord il primo, del Sud l’altro - avevano capito che prima delle case venivano le fabbriche, che significava lavoro, interpretando anche il dettato costituzionale di una Repubblica italiana fondata sul lavoro.
L’Italia si sarebbe salvata e avrebbe conosciuto il periodo di crescita tumultuosa che l’ha sospinta nel novero dei Paesi ricchi grazie a quella intuizione, a quell’accordo tra produttori - imprenditori e lavoratori - che, colmando una distanza in apparenza siderale, hanno gettato le basi della nostra fortuna. La voglia di unire aveva la meglio sulla tentazione di dividere. C’era la consapevolezza che si era tutti sulla stessa barca e che, comunque, occorreva remare nella medesima direzione se si voleva approdare sulla sponda desiderata. Le discussioni e i distinguo non potevano compromettere la navigazione.
Quell’eredità, quella civile capacità di confrontarsi, quella voglia di benessere - le molle che ci hanno sospinto fin qui - sono il patrimonio più prezioso sul quale possiamo contare per svolgere al meglio il nostro servizio. Abbiamo una missione da compiere e non possiamo tradirla.
La lettura di questo volume ci consente di compiere un tuffo nella nostra storia, la storia di Confindustria, rinforzandoci nella convinzione che s’intrecci in maniera indissolubile con la storia del Paese in un dialogo-scontro-confronto volto alla costruzione di un’Italia migliore.
Le stagioni che abbiamo vissuto in passato sono state segnate dal problema cruciale di una riduzione del divario fra Nord e Sud. Renato Lombardi esortava perciò le principali imprese del Paese a concorrere alla soluzione della questione meridionale e le Pmi a stabilire uno stretto rapporto fra la loro attività e la comunità del territorio in cui esse operavano. Sotto la sua presidenza nasceva il Comitato Mezzogiorno, affidato alla guida di uomo equilibrato e avveduto quale era Enzo Giustino, nel tentativo di accorciare la distanza economica tra le due Italie che altrimenti si sarebbero pericolosamente separate.
Nel 1970 la riforma varata dalla Commissione presieduta da Leopoldo Pirelli, in nome di un “capitalismo illuminato”, pose all’industria il compito di agire quale protagonista della modernizzazione del Paese. E segnò una svolta nell’itinerario di Confindustria.
Abbiamo attraversato negli anni successivi il periodo più buio della Repubblica: gli anni di piombo, l’aggressione assurda e violenta delle Brigate Rosse alle istituzioni dello Stato e alla classe imprenditoriale. Nel contempo raggiungeva il suo apice la guerra in Vietnam e cessava la possibilità di convertire dollari in oro, con una forte impennata dei tassi d’interesse.
In quel periodo, che chi l’ha vissuto ricorda come uno dei più drammatici, venne firmato da Giovanni Agnelli (chiamato alla presidenza della Confindustria anche per le sue vaste credenziali internazionali) con Luciano Lama l’accordo che, dopo il riconoscimento dello Statuto dei lavoratori, istituiva il punto unico di contingenza in nome di un’alleanza tra i produttori, tra la borghesia imprenditoriale e la classe operaia, per scongiurare il pericolo di una profonda crisi strutturale del nostro Paese.
Ci si apriva intanto al mondo. Con Guido Carli assumiamo la convinzione che gli imprenditori non possano e non debbano inseguire solo obiettivi corporativi. Per competere il Paese ha bisogno di recuperare produttività e il rapporto con i sindacati pone al centro l’attenzione per i conti pubblici e il rilancio dell’economia nazionale. Si scopre l’importanza dell’opinione pubblica e Confindustria fonda due pilastri della sua struttura attuale - il Centro studi e la Luiss - come strumenti per studiare, approfondire, diffondere la conoscenza.
Vittorio Merloni coniuga la continuità col cambiamento e pone il tema della legittimazione dell’impresa come attore sociale. È espressione di quella che viene definita la Terza Italia, rappresentata dalle tante piccole aziende diffuse sul territorio che cominciano a prendere coscienza della propria forza. Si avverte l’esigenza di far compiere al Paese un salto di qualità, di tirarlo fuori delle secche degli anni settanta e avviarlo verso l’adozione delle nuove tecnologie informatiche. Non a caso, sono anche gli anni della famosa marcia dei quarantamila con la quale si sconfigge l’anarchia nelle fabbriche e si fiacca il terrorismo rosso.
L’ideale europeo prende sempre più consistenza con Sergio Pininfarina. Già eurodeputato, il presidente di una Confindustria che vede ampliarsi, insieme agli spazi della democrazia, quelli dell’economia di mercato, dopo la caduta del muro di Berlino, compila un Manifesto che esorta gli industriali e il Paese a farsi trovare pronti all’appuntamento con Maastricht. Si affaccia la prospettiva della globalizzazione che Pininfarina intende come sviluppo armonico dell’economia mondiale. È il tempo delle grandi utopie, delle privatizzazioni pragmatiche e della richiesta pressante di riforme istituzionali in grado di liberare le energie per la crescita.
Ogni epoca è il tassello di un mosaico che raffigura sempre e in ogni caso la tensione verso la libertà d’impresa come bene fondamentale per garantire al Paese il buon funzionamento della democrazia rappresentativa e un benessere diffuso.
Oggi Confindustria sa di essere un ponte tra gli interessi delle imprese e quelli del Paese. Dietro il suo pensiero ci sono le imprese al centro dell’economia e le persone al centro della società. Una società aperta e inclusiva, capace di combattere le disuguaglianze e sfidare la povertà.
Leggendo le pagine di questo volume si percepiscono le grandi sfide dei nostri tempi, in quanto esso è il testimone dei valori e degli insegnamenti che ciascun presidente ha trasferito al nostro sistema associativo. Si comprendono i tanti perché, si avverte un filo rosso che collega quei tempi ai nostri tempi, orgoglio e consapevolezza di rappresentare l’industria della seconda manifattura d’Europa, con il senso di responsabilità, la cultura della complessità, il rispetto verso i nostri associati e inoltre, con l’umiltà e il realismo di ricordare da dove veniamo, le nostre radici, i nostri valori, le nostre sfide, le sfide del Paese: perché, come l’esperienza ci ha insegnato, un imprenditore non si stanca mai. Siamo mossi dalla passione per il nostro lavoro e dall’amore per il Paese.
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