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Viktor Elbling, un messaggero che facilita il dialogo tra Italia e Germania

Viktor Elbling
Viktor Elbling

Il Maggiolino e la Vespa sono stati mezzi importanti nella vita di Viktor Elbling, da alcuni mesi ambasciatore in Italia della Repubblica federale tedesca. Diplomatico con buona propensione all’ascolto più che al racconto di sé, Elbling è un signore magro e gentile, mento affilato, barba sale e pepe, che veste con cura e italica eleganza. Abiti sartoriali, in abbinamento perfetto con cravatte e camicie, segni di una ricercatezza naturale.

È nato nel 1959 a Karachi ed è allora, anzi un anno prima, che entra in gioco il Maggiolino, quando i suoi genitori, Erich e Fortunata, dopo essersi conosciuti e innamorati a Londra partono qualche settimana dopo per il Pakistan con l’auto del popolo intraprendendo un viaggio-avventura di 10mila chilometri attraverso la Turchia e la Persia. Erich è un diplomatico tedesco in missione a Karachi; Fortunata è un’infermiera italiana. Lui è in vacanza nella capitale britannica perché ai tempi nelle sedi disagiate ogni due anni si aveva diritto a qualche mese di pausa dall’incarico. Lei è lì per lavoro.

Il padre dell’ambasciatore è venuto a mancare tempo fa, la madre, 94 anni, vive a Forlì, dov’è nata. E dove forse si spiega la leggera inflessione - romagnola? - di un italiano parlato alla perfezione e con sentimento. La Vespa vintage, ancora funzionante, è un regalo di gioventù, una 150 GT comprata in Spagna nel 1977 e che spesso ha seguito Viktor Elbling nei suoi incarichi all’estero, Roma compresa. L’ambasciatore è dunque tedesco e italiano, o, se si preferisce, italiano e tedesco. Rappresenta un Paese che è difficile da spiegare agli italiani, soprattutto in questa fase di rigurgiti e rancori nazional-sovranisti un po’ dappertutto in Europa, e deve raccontare a casa un Paese, il nostro, sempre più difficile da spiegare ai tedeschi. Il suo incarico è una logorante guerra di posizione quotidiana contro i luoghi comuni che dominano la narrativa Italia-Germania: «La realtà è che ci conosciamo peggio di quanto pensiamo di conoscerci», ammette. L’incontro è nella capitale, per un pranzo al “Al Ceppo”, ristorante del quartiere Parioli che ha scelto di alleggerire e reinventare alcuni piatti della tradizione marchigiana e romana mantenendo la specializzazione in carni e pesce alla griglia. È un locale di eleganza sobria, sale con boiserie, luci soffuse e un’area bistrot dominata da una grande scaffalatura di ottime bottiglie.

«Un recente sondaggio commissionato dalla nostra ambasciata - prosegue sul tema del rapporto e della conoscenza reciproca dei due Paesi - mostra che l’opinione pubblica italiana ha in genere fiducia nella Germania e nella leadership della cancelliera Merkel. Lo stesso sondaggio indica però che la Germania è percepita come un Paese egemonico in Europa e con una visione egoista. Le due visioni coesistono». Secondo Elbling è possibile migliorare le relazioni e la conoscenza reciproca attraverso un lavoro incessante sul territorio («io e i miei collaboratori cerchiamo di uscire spesso dalla bolla romana») per incontrare i rappresentanti degli enti locali, della società civile, delle istituzioni culturali. Un dialogo di primo livello, complementare a quello istituzionale tra governi e parlamenti. Quanto al mondo dell’economia, lì le cose vanno decisamente meglio: «Nei rapporti tra imprese italiane e tedesche la conoscenza reciproca è naturale, approfondita. Le aziende italiane per scelta o necessità sono vicine all’Europa, ai suoi mercati. C’è poi questa integrazione industriale fortissima tra le imprese del Nord Italia e della Germania del Sud: lì vediamo vicinanza e comprensione, non bisogna spiegare perché l’Italia è importante per la Germania e viceversa».

Probabilmente per lui l’on the road pedagogico nella provincia italiana è un lavoro relativamente facile. Conosce bene il Paese, nel quale ha vissuto e studiato per alcuni anni da bambino e poi da ragazzo (Forlì, con i nonni, Napoli e Milano) e con il quale ha mantenuto saldi i legami famigliari, ed è parte di quella classe dirigente tedesca (la strada verso le istituzioni più importanti in Germania passa soprattutto attraverso studi di giurisprudenza) che ha sempre saputo guardare oltre i propri confini per cercare e trovare soluzioni ai problemi interni. Nonostante questa profonda conoscenza, è rimasto in parte sorpreso dal tenore dell’attuale dibattito politico in Italia: «L’ho trovato più introverso di quello che ero abituato a conoscere, un dibattito che guarda più dentro che fuori dai propri confini. E sono rimasto sorpreso perché l’Italia è un Paese essenziale per l’Europa ed è un nostro partner strategico, un Paese con entrambi i piedi nell’Unione, per interesse e necessità. Per carità, tutti abbiamo una componente di introversione politica a dobbiamo rendere conto all’elettorato nazionale, però noi tedeschi, che ci troviamo al centro dell’Europa, manteniamo sempre una forte consapevolezza che quello che succede in Polonia, in Francia, in Italia ha molto a che fare con la Germania, direttamente».

Elbling cita a titolo d’esempio il dibattito tedesco sull’immigrazione. Un dibattito che ha vissuto momenti infuocati, soprattutto dopo la decisione dell’agosto 2015 di lasciar entrare i profughi in fuga dalle guerre del Medio Oriente e il cui afflusso, dai Balcani, premeva incessantemente nelle stazioni ferroviarie dell’Europa Centrale. Passati quei momenti drammatici e la fiammata che ha portato all’ascesa di partiti di estrema destra e xenofobi come Alternative für Deutschland, la discussione in Germania si è stabilizzata e ha trovato un suo equilibrio: «Non ci siamo arrivati subito, ci sono voluti decenni e non è da molto che la Germania ha riconosciuto di essere ufficialmente un Paese di immigrazione dotandosi di una legge organica in materia (nel 2005, dopo un rapporto della parlamentare democristiana Rita Süssmuth, ndr). Siamo partiti nel dopoguerra con i primi flussi in arrivo dall’Italia, dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Grecia, poi dall’allora Jugoslavia, dalla Turchia. C’è voluto del tempo per capire che quei lavoratori arrivati in Germania non sarebbero tornati indietro, ma avrebbero creato famiglie nel nostro Paese dando origine a seconde, terze generazioni». È convinto che la fatidica decisione di Angela Merkel sui migranti sia stata presa per ragioni umanitarie poiché in quella situazione di emergenza drammatica non era possibile fare calcoli e pensare ad altro, ai presunti benefici per l’economia tedesca. Come stranamente era già accaduto alla donna più razionale della politica europea, fu una decisione presa in maniera repentina, improvvisa - sostengono in molti - senza nemmeno consultare i suoi più stretti collaboratori e consiglieri. «Di fronte alle conseguenze di una simile scelta il governo e la società si sono resi conto di avere dei limiti, che non sarebbe stato possibile fare tutto. Ci siamo detti: se non possiamo offrire una integrazione degna, allora non può funzionare. Le critiche sono state forti, lo Stato ha reagito con leggi che hanno aumentato i controlli, ma il dibattito si è via via stabilizzato. Di cosa si discute ora in Germania quando si parla di immigrazione? Di come governare questo processo, in modo che preservi la dignità di chi chiede accoglienza, che sia umano e intelligente. Un sistema capace di funzionare per i migranti, ma anche per la società che accoglie».

Prima di arrivare alle elezioni europee, il colloquio viaggia su aspetti meno informali della vita e del lavoro di un ambasciatore. Viktor Elbling ha tante passioni, dall’architettura alla fotografia (con qualche rimpianto per alcuni gioielli analogici della Leica, come la M6) al calcio. Gioca ancora ed è un tifoso appassionato. Tre le squadre del cuore. L’Inter innanzitutto, il ricordo della prima partita allo stadio con il papà, a San Siro. La seconda è l’Atletico Bilbao. La terza è l’Herta di Berlino, le partite all’Olympiastadion, bellissimo e monumentale, ma troppo grande e freddo, tanto da sembrare vuoto anche quando ci sono 50-60mila tifosi sugli 80mila e passa di capienza massima. Ammette di avere un debole per le squadre problematiche, che vincono poco o che anche quando vincono soffrono e fanno soffrire dimenticandosi presto di aver vinto. All’ambasciata di Roma ha introdotto il biliardino, come aveva fatto nel suo incarico precedente a Città del Messico: «Aiuta a rilassarsi, a scaricare le tensioni sul lavoro, ma ha anche riflessi positivi sulla produttività», sorride.

L’Europa, le elezioni del 26 maggio, chiudono l’incontro. Elbling è cautamente ottimista. Vede spostamenti negli equilibri tra partiti, ma non si attende cambiamenti radicali, movimenti tettonici, ed è convinto che ci sia bisogno di più Europa perché diversamente, come Stati Nazione, non saremo mai in grado di affrontare e risolvere problemi complessi come il rischio di guerre commerciali, la sfida del cambiamento climatico e la gestione dei flussi migratori: «Credo che l’Europa sia più forte e stabile di quello che si crede ed è importante che molta gente vada a votare. Sono sempre scettico quando sento dire, in Italia come in Germania: l’Europa ci obbliga a fare questo, l’Europa ci obbliga a fare quest’altro. L’Europa siamo noi. Siamo noi ad averne creato le istituzioni e, se vogliamo cambiarle, allora dobbiamo farlo insieme, così come, insieme, le abbiamo costruite».

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