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libertà di espressione

«Caso Salvini», selfie e striscioni: perché è sbagliato reprimere il dissenso

In campagna elettorale c’è il rischio di diventare tutti un po’ più nervosi.
Negli ultimi giorni i media hanno riportato tre episodi in cui la (soi-disant) necessità di tutelare l’ordine pubblico ha compresso la libertà di espressione.
Una ragazza ha chiesto un selfie al ministro degli Interni e nel filmato gli ha rivolto una frase ironica ricordandogli come la Lega, quando aveva ancora il predicato (Nord), disprezzasse i meridionali. Il politico chiedeva di cancellare il video e membri delle forze dell’ordine si impossessavano del telefono. Il cellulare sarebbe stato poi restituito, tanto che il video è poi comparso in rete.

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Gli altri due casi hanno riguardato striscioni esposti su balconi dove lo stesso Ministro doveva parlare. Su uno, a Salerno, era scritto, citando Pino Daniele, «questa Lega è una vergogna», su un altro, nella bergamasca, «Non sei il benvenuto». Entrambi sono stati rimossi, il primo dalla proprietaria dell’appartamento, su consiglio della polizia, il secondo dai vigili del fuoco.
Il comune denominatore è l’intervento delle forze dell’ordine. Ma qual è la disposizione di legge che lo consente? Noi non l’abbiamo trovata, anche se non ci sentiamo di dare certezze, tenuto conto di quanto impegno mette il nostro legislatore nel nascondere obblighi e divieti nelle pieghe dei testi normativi.

Il caso del telefonino
Partiamo dal primo episodio: il gesto di impossessarsi di un telefono potrebbe essere giustificato solo se con quel mezzo sia commesso un reato o sia messa in pericolo l’incolumità di qualcuno. Ma non si vede davvero quale illecito possa configurare, né quale pericolo possa avere creato la ripresa di immagini, in un luogo pubblico, di un personaggio pubblico, per di più consenziente, condite da una blanda ironia. Né si comprende la fonte del potere del ministro dell’Interno di chiedere alla ragazza la cancellazione del video né le ragioni di chiamare l’attenzione della forza pubblica, il cui lavoro in quei momenti è molto delicato.

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Veniamo agli striscioni: nello scandagliare l’ordinamento affiora qualche disposizione.
Anzitutto l’art. 1 comma 2 della legge n. 212 del 1956 prevedeva che qualunque persona non candidata potesse diffondere il proprio pensiero «soltanto in appositi spazi» in numero uguale a quelli garantiti per i partiti. La disposizione, un fossile normativo, è stata abrogata nel 2013 e con ciò è venuto meno l’obbligo per lo Stato di garantire simili spazi. Tuttavia, non può certo essere venuta meno la libertà di ciascuno di esprimere la propria opinione politica, anche per mezzo di scritte esposte al pubblico, se ciò non viola altre disposizioni.
L’art. 99 del D.P.R. n. 361 del 1957 punisce la reclusione da uno a tre anni e una multa – pene non lievi – «chiunque con qualsiasi mezzo impedisce o turba una riunione di propaganda elettorale». Se la polizia avesse intravisto una simile fattispecie avrebbe potuto, anche d’iniziativa, sequestrare gli striscioni. Ma si può dire che davvero essi impedissero o anche soltanto turbassero il comizio? Diremmo di no, a meno di confondere turbamento con dissenso. Confusione tuttavia inammissibile, soprattutto tenuto conto che si tratta di un delitto da interpretare in modo tassativo e restrittivo.
Ancora: il paragrafo 26 della circolare del ministero dell’Interno dell’8 aprile 1980, che disciplina le riunioni di propaganda elettorale, autorizza l’uso di mezzi anche coercitivi per evitare il contatto tra gruppi politicamente contrapposti. Pure una simile norma non sembra invocabile per il gesto di esporre uno striscione.

Cercando di sintetizzare: tutte queste disposizioni sono volte a tutelare la pacificità delle riunioni politiche. E comprendiamo bene che nel corso della campagna elettorale sia giustificata una normativa più attenta, in un momento in cui gli animi sono facili ad accendersi. Tuttavia, ciò non può tradursi nella completa preclusione del disaccordo.
Suscita, poi, una certa impressione il fatto che, in assenza di pericoli concreti, un apparato di polizia sia pronto a reprimere il biasimo nei confronti del potere in carica. La regola generale, invero, dovrebbe essere l’esatto opposto: più alto è il potere, più feroce può farsi la critica, fino a diventare del tutto estemporanea, vicina all’insulto. È accaduto a Berlusconi, a cui è stato dato del «buffone», e ad Haider, che ha dovuto subire l’epiteto di «idiota», senza che un giudice ritenesse ciò ingiurioso.

Inoltre, la Costituzione insegna che la lotta politica deve essere condotta con i mezzi della persuasione e non della violenza. E ciò è possibile solo se al confronto si dà il maggiore spazio possibile, purché ovviamente non metta in pericolo l’incolumità di alcuno. La libertà di critica, infatti, è importante non solo per quanto favorisce, ma soprattutto per l’involuzione democratica che rischia di innescare il suo contrario, cioè il cominciare ad accettare che siano plausibili limiti al pacifico dissenso politico.

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