Il pessimismo della ragione e l’ottimismo del cuore. Uniti e amalgamati dal realismo. Perché la situazione è sia grave sia seria. E perché le parole sono pietre. Non c’è politica industriale senza politica economica. E non ci sono né economia né società senza impresa. La manifattura - nelle sue declinazioni nazionali ed europee - è il nocciolo duro di un discorso civile prima che politico, politico prima che economico.
Per questa ragione - nel giorno in cui l’Istat taglia di un punto secco la stima del Pil del 2019 portandola a 0,3% - occorre tirare una riga. E questa riga separa l’utile dal nocivo per il nostro sistema industriale.
L’utile è - o, meglio, sarebbe - il superamento delle mille, frastagliate e rissose voci che si accavallano e delle mille, frammentarie e contradditorie misure che si sovrappongono ogni volta che cambia il governo o che il governo implode. L’industria ha bisogno di linearità. La politica industriale è selezione degli obiettivi e predeterminazione dei mezzi. La politica dei fattori è scelta delle combinazioni economiche e sociali. La politica dei fini è costruzione di uno scenario che non va terremotato in continuazione. Il nocivo è, invece, un ambiente politico - prima che economico e civile - che trasforma ogni parola in gracchio e ogni gracchio in urlo. Perché, appunto, le parole sono pietre. L’utile è la definitiva idea che, se la manifattura è l’ossatura dell’Europa, il rapporto con l’Unione europea non può essere di simbiosi passiva, ma nemmeno di conflitto lacerante.
Perché, nella nuova geografia del capitalismo internazionale - soprattutto dopo che con il caso Huawei il rischio è avere due distinte matrici, una americana e l’altra cinese, nelle catene globali del valore - l’Italia o è parte dell’Europa o non è. Il nocivo è, invece, la sottovalutazione del concetto di infrastruttura, innestata sulla cultura dei no, dei no, dei no. Soprattutto per un Paese che non può non considerare il doppio binario - ogni riferimento all’alta velocità, nel Nord-Ovest come nel Nord-Est è puramente casuale- in grado di collegare il tessuto produttivo italiano al resto del mondo e di ridurre le distanze interne fra le economie locali. Economie locali che rappresentano la nostra più intima constituency tecno-produttiva e civile-antropologica. Pessimismo della ragione, perché il contesto macroeconomico è complesso e perché il contesto politico è rissoso al limite del parossismo, emotivo al limite dell’irrazionalità. Ottimismo del cuore perché la manifattura è concettualmente ossatura stabilizzante della società ed è, nello specifico italiano, concretamente vitale e inaspettatamente florida.
Ogni ipotesi di politica industriale e ogni progetto di politiche per le imprese va ricomposto nella razionalità e nell’equilibrio. Non a caso, ieri all’assemblea di Confindustria l’accoglienza al presidente della Repubblica Mattarella è sembrata esprimere l’idea che senza razionalità e senza equilibrio nulla di buono si possa sperare, nulla di buono si possa progettare, nulla di buono si possa fare. Per le imprese. Per chi le guida, per chi ci lavora, per gli italiani.
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