La necessità di un’alleanza tra discipline scientifiche e umanistiche è un tema che riemerge puntuale nel dibattito pubblico nei momenti di grande cambiamento sociale e democratico. È un obiettivo ricercato da oltre un secolo e che - con l’impegno di ciascuno - le future generazioni potrebbero veder realizzato.
Nel 1959, C. P. Snow, nel suo celebre The Two Cultures and the Scientific Revolution si interrogava su come poter regolare i rapporti di forza tra i due ambiti della conoscenza umana nelle istituzioni e nella politica britannica e americana, da poco uscite dal Secondo conflitto mondiale e già imperniate nella logica della Guerra fredda. I progressi della scienza e della tecnologia avevano prodotto e messo a disposizione molti dei più sofisticati strumenti di difesa e le conoscenze che avevano permesso di migliorare la qualità della vita dei cittadini in Occidente. Eppure, ragionava Snow, chi nelle istituzioni prendeva le più importanti decisioni politiche aveva scarsa dimestichezza, se non indifferenza o scherno, nei confronti della scienza e del suo metodo. La conclusione suggerita dallo scienziato era di bilanciare questo divario facendo aumentare la quota di scienziati tra i decisori politici e integrando le rispettive conoscenze verso una futura alleanza.
Cinquant’anni dopo Snow, J. Kagan in Le tre culture, Scienze naturali, scienze sociali e discipline umanistiche nel XXI secolo (2009) ha aggiunto una terza cultura a quelle identificate da Snow: le scienze sociali. Esse s’interessano, come le humanities, di società, storia e politica, ma lo fanno utilizzando i metodi di controllo delle scienze naturali: ipotesi, osservazione, misurazione, test e (sempre di più) esperimenti. Come auspicato già da Max Weber agli inizi del Novecento, al pari di ogni scienza, anche le discipline sociali, cercando la verità dei fatti, possono fornire spunti preziosi ai decisori politici, illuminando i nessi causali fra i fenomeni sociali, economici e istituzionali e, dunque, favorendo l'esercizio della responsabilità nei confronti delle conseguenze delle decisioni politiche.
Oggi, molti osservatori ritengono che l’Occidente stia vivendo una nuova crisi di alcuni dei suoi valori democratici, tra cui un pericoloso ritorno dell’anti-intellettualismo. Tra i saperi sotto attacco c’è la scienza, sotto forma di una sfiducia verso il metodo delle prove e delle evidenze basate sui fatti, verso le istituzioni, gli scienziati, e verso molti dei temi chiave della ricerca scientifica - vaccini, Ogm, ma anche temi economici e sociali - al tempo stesso alimentando fantasiose derive prive di alcuna prova sperimentale. Questa situazione ha lasciato spazio a veri e propri deragliamenti dai binari della scienza: si pensi al caso Stamina o all’adozione di pratiche magiche in agricoltura come l’agricoltura biodinamica o ancora all’inseguire miracolistiche (non) terapie oncologiche (vedasi Hamer) con esiti fatali. Questo fenomeno è il frutto avvelenato della cosiddetta “disintermediazione”, ovvero la sfiducia (distrust) – per fortuna limitata a una piccola ma molto “rumorosa” parte della popolazione - per le competenze e gli esperti che nelle democrazie rappresentative liberali hanno sempre svolto il ruolo centrale di intermediari culturali tra cittadini e decisori politici.
Difendere le competenze non significa riproporre la questione della tecnocrazia. Scienza e politica sono due sfere distinte. Ma se la politica ha, e deve continuare ad avere, l’ultima parola sulle grandi scelte, sulle alternative di allocazione e distribuzione delle risorse, sui contenuti dell’interesse pubblico e così via, tali scelte devono essere responsabili. Non possono cioè prescindere dalla considerazione delle indicazioni fornite dalla scienza, basate su dati certi, trasparenti e ispirati a quelle prove d’efficacia – intese come la miglior rappresentazione possibile dello stato delle cose, in un determinato momento, accompagnata da una valutazione probabilistica circa la loro affidabilità -, che solo gli esperti possono produrre. Il Parlamento può decidere di “non conformarsi” a un parere tecnico-scientifico su settori primari come la sanità, l’ambiente o l’agricoltura, ma deve dare una spiegazione politica trasparente alla cittadinanza, anziché screditare l’autorevolezza o l’affidabilità dei dati per affidarsi a ciarlatani, cavalcare movimenti d’opinione o terapie richieste a gran voce dalla piazza. Criticare i vaccini sostenendo che siano pericolosi o superflui, contestare i dati sull’efficacia degli Ogm o negare che il cambiamento climatico sia connesso all’impatto umano significa infatti non prestare adeguato interesse (o peggio nuocere) alla salute dei cittadini, erodere i loro diritti e le loro risorse. Significa minare la barriera che la modernità ha faticosamente costruito contro falsità, inganni e nascondimenti: la scienza, appunto.
È in questo problematico contesto che si sta consolidando la “post-verità” (post-truth), che nel 2016 l’OxfordDictionary definiva come «circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti, nella formazione della pubblica opinione, rispetto al richiamo alle emozioni e alle convinzioni personali». Ed è nel momento in cui la democrazia fibrilla che la politica tende a sbarazzarsi della forza dei dati e delle competenze, perché rappresentano l’argine a un decisionismo di tipo dispotico. Riemergono così le “sfide” (o peggio le equivalenze) tra fatti e opinioni, e una delle conseguenze potrebbe essere una nuova frattura tra le tre culture. Ecco perché, invece, oggi è più che mai importante far dialogare questi tre approcci, essenziali per comprendere la realtà che ci circonda.
E se oggi questo dialogo proficuo sembra possibile, è perché le tre culture hanno raggiunto una qualità di metodo e contenuti che rende ormai i tempi maturi per una integrazione. Le discipline scientifiche possono offrire l’affidabilità e la trasparenza del metodo, i dati basati sulle prove ripetute da gruppi indipendenti e pubblicamente controllabili dalla comunità degli studiosi. Un sistema di conoscenze che, da quando si è affermato su scala internazionale, ha permesso per la prima volta nella storia dell’umanità di triplicare l’aspettativa di vita dei cittadini e di diminuire sofferenze e lavori disumanizzanti. Un sistema che ha, inoltre, dato un impulso di conoscenze senza pari se paragonato ai secoli precedenti, aprendo, ad esempio, le nuove frontiere della genetica, della fisica quantistica, delle neuroscienze o dell’esplorazione spaziale. Le scienze sociali hanno dato un contributo fondamentale alla comprensione dei principali meccanismi su cui si basa la vita associata, dal mercato alle relazioni internazionali, dall’impresa alle istituzioni dello stato. Ispirata anch’essa dal metodo empirico, la ricerca sociale è oggi imprescindibile per impostare correttamente le decisioni collettive, in base a criteri di efficienza, efficacia ed equità; ci aiuta a comprendere anche le dinamiche delle scelte individuali, a riconoscere i pregiudizi cognitivi (bias) che regolano le nostre scelte quotidiane e il nostro rapporto con la percezione del rischio. Le discipline umanistiche, infine, possono offrire l'enorme forza rappresentata dalla conoscenza dell’esperienza storica, dallo studio di quella varietà di fattori (economici, sociali, culturali) che hanno portato popoli e civiltà verso le catastrofi o la prosperità. In altre parole, esse gettano luce sul significato dei valori, sulla loro reciproca compatibilità, sulle condizioni della loro realizzabilità empirica, in prospettiva storica ed evolutiva.
Le tre culture rappresentano tre modi complementari di osservare e interpretare la realtà. Congiuntamene possono fornire un contributo al miglioramento delle chance di vita delle persone, al rafforzamento di forme di convivenza pacifiche, costruttive, sostenibili, rispettose dell’ambiente e della dignità di ogni essere umano.
Siamo «nani sulle spalle di giganti», diceva nel Medioevo Bernardo di Chartres, ricordandoci che ogni generazione deve misurarsi
con i successi di quella precedente. Una metafora felice, perché il “nano” che rappresenta le generazioni recenti può essere
doppiamente inteso sia come colui che non svetta da un punto di vista intellettuale rispetto a chi lo precede, sia come colui
che per la sua posizione non può esimersi dal guardare più lontano della generazione precedente, trovandosi comodamente assiso
sulle sue spalle. Se le prossime generazioni sapranno creare una nuova alleanza tra le tre culture avranno partorito un gigante.
Il futuro, va da sé, è nelle loro mani.
Elena Cattaneo, Università Statale di Milano, Senatore a vita; Maurizio Ferrera, Università statale di Milano; Andrea Grignolio,
Università Vita-Salute San Raffaele, Milano, ITB-CNR; Marco Muzi Falconi, Università Statale di Milano
Gli autori sono i promotori dell’iniziativa “Essere cittadini tra conoscenza, competenze e decisione pubblica” dell’Università
Statale di Milano.
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