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Prodi: «imprese, filiere e atenei uniti per la ricerca d’eccellenza»

(Imagoeconomica)
(Imagoeconomica)

«Il modello americano non è comparabile al modello europeo. Non solo perché la magnitudo finanziaria e il rapporto fra le istituzioni del mercato e della politica sono radicalmente differenti. Ma anche perché le specializzazioni produttive sottostanti sono diverse. Ma, proprio per questo, occorre confrontare questi modelli evidenziandone le analogie e le differenze. E ricordando che, se l’Unione europea non coglie la valenza dell’attuale passaggio storico, il rischio è che divenga insormontabile il divario con gli Stati Uniti e anche con la Cina».

Romano Prodi parteciperà lunedì 27 e martedì 28 maggio alla nuova edizione del Premio Giovani Innovatori, organizzato dalla Mit Technology Review Italia in collaborazione con la Bologna Business School. Il meccanismo approntato - fra Boston e Bologna, gli Stati Uniti e l’Italia - è squisitamente americano: la presentazione dei casi - progetti ancora embrionali alcune volte, imprese già definite altre volte - rappresenta la cornice - e la sostanza - di una manifestazione in cui gli analisti e i policy maker si confrontano con chi ha deciso di uscire dai laboratori della ricerca e dalle aule universitarie per misurarsi con il rischio di impresa: «Sono ormai nove anni che si svolge a Bologna questa iniziativa. C’è una continuità che ha creato un legame stretto», nota Prodi.

Nei giorni in cui i cittadini europei si preparano ad andare a votare - mentre l’ascesa dei movimenti sovranisti ha trasformato le elezioni di domenica in un crocevia fondamentale per il futuro del progetto europeista - i temi della politica economica e della politica industriale sono taciuti, ma conservano tutta la loro centralità. Riflette Prodi: «È vero che le specializzazioni produttive sono diverse. L’Europa è basata sulla manifattura: basti pensare a quanto contano, in Italia, la componentistica e la meccatronica. Gli Stati Uniti si trovano sulla frontiera più avanzata della tecnologia: per esempio, nell’intelligenza artificiale e nelle scienze della vita. Ma è altrettanto vero che queste vocazioni produttive non nascono soltanto dal basso, ma vengono favorite, “innaffiate” e curate dall’alto. Le scelte di politica industriale non sono neutrali». A questo proposito, Prodi ricorda un caso virtuoso in cui l’Europa è riuscita a superare i particolarismi, a definire un obiettivo, a elaborare una strategia comune e a ottenere risultati che l’hanno posta ai vertici della concorrenza internazionale: «Nella fisica sperimentale, grazie al Cern di Ginevra, l’Europa è tutt’altro che un nano fra i giganti. Anzi, ha assunto una posizione di leadership. Occorre ispirarsi allo stesso metodo. Servono dei Cern delle politiche industriali e delle politiche per le imprese».

La necessità di predisporre iniziative unitarie - un metodo che manifesta con vividezza tutta la sua importanza, soprattutto adesso che l’edificio europeo è messo in dubbio dalle fondamenta - riguarda anche le iniziative già esistenti: «Guardiamo agli investimenti che il governo centrale tedesco ha predisposto sull’intelligenza artificiale, con l’obiettivo di recuperare il gap in un settore che è appunto una delle frontiere più avanzate dell’innovazione: 3 miliardi di euro è una cifra consistente, ma è poca cosa rispetto a quanto fanno gli Stati Uniti e la Cina. Una sfida come quella dell’intelligenza artificiale va affrontata con un atteggiamento sistemico e unitario, non soltanto attraverso piani nazionali».

Le differenze con il modello americano, dunque, esistono: «Negli Stati Uniti, nell’innovazione più radicale ci sono diversi punti di agglomerazioni urbane: Boston in Massachusetts e la Silicon Valley in California sono soltanto i più noti. Là si esprime un modello unico di ricerca che produce altra ricerca, attrae fondi di investimento, mobilita università, attiva capitale industriale privato, fa concentrare investimenti pubblici, unisce anche al di là di ciò che appare gli interessi militari e gli interessi civili. L’Europa è un’altra cosa. E l’Italia, all’interno dell’Europa, è ancora un’altra cosa. Ma, proprio per questo, dobbiamo capire la nostra fisiologia, migliorarne il funzionamento e progettare nuovi sviluppi». L’attuale natura del sistema industriale italiano – il «sottostante» di cui parlava Prodi all’inizio di questo colloquio - è incentrata su una idea di fabbrica, su una dimensione piccola e media delle aziende e su una specializzazione nel medium-tech che fanno propendere più verso l’innovazione marginale e meno verso l’innovazione di rottura, quella che appunto gli americani chiamano disruptive. «Per tutte queste ragioni - riflette Prodi - diventa fondamentale mettere a fattore comune tutti gli elementi del sistema. Le medie aziende ultrainternazionalizzate e le filiere del capitalismo diffuso, quel che resta della grande impresa italiana e le nostre università, i laboratori dei nuovi artigiani digitali e i punti di connessione con il sapere mainstream, ad esempio il Mit di Boston. Il nostro futuro passa da questo metodo».

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