Non se ne parla, ed anche il ministro dell’Economia Giovanni Tria, in una recente intervista al Sole 24 Ore, ha voluto mantenere il riserbo, in attesa di tempi più opportuni per sciogliere il nodo. Tuttavia, il tema è sui tavoli del Governo gialloverde. C’era prima dello scossone delle elezioni europee e ci resta a maggior ragione oggi nell’agenda sul che fare da rivedere dopo l'exploit di Matteo Salvini e della Lega. E il tempo corre.
La questione è quella che a volte passa sotto il titolo delle “privatizzazioni” (che richiamano ad un passaggio diretto di “pezzi” dello Stato al mercato privato) ma che è più corretto indicare come “dismissioni” (più che altro contabili). Terreno sul quale il Governo punta per spingere sulla tendenziale riduzione del debito pubblico e che il ministro Tria ha messo nero su bianco nel Def: 18 miliardi di dismissioni per il 2019.
Siamo a fine maggio e come si arriva all’ambizioso obiettivo per circa un punto di Pil e con un bilancio “storico” (non imputabile a questo Governo) che indica uno zero tondo sia per il 2017 che per il 2018? Una quota per circa un miliardo verrebbe dalle dismissioni immobiliari. Su una strada vista in discesa: il Governo intende «mettere in vendita non i gioielli di famiglia ma i patrimoni secondari che non servono allo Stato, ma Eni, Enel o soggetti simili non finiranno in mani private, devono restare saldamente nelle mani dello Stato», aveva detto il vicepremier Di Maio in autunno. Poi la viceministro al Mef Laura Castelli aveva parlato di «riordino degli asset strategici utilizzando quella che oggi è l'infrastruttura pubblica Cassa Depositi e Prestiti». Infine il sottosegretario Armando Siri, poco prima delle sue recenti dimissioni, aveva spiegato che le partecipazioni delle aziende pubbliche non sarebbero state messe sul mercato: «Dobbiamo realizzare un veicolo che possa gestire il nostro patrimonio pubblico, emettendo obbligazioni, così sarà possibile ottenere denaro in più».
Tutto, e non da oggi (nel 2017, quando al timone del Mef c’era Pier Carlo Padoan si vociferava di mettere sul mercato il 15% della Cdp, controllata per l'85% dal Tesoro e per il 15% dalle Fondazioni bancarie) sembra continuare a ruotare intorno alla Cdp, istituzione pubblica ma fuori dal perimetro del bilancio dello Stato che potrebbe “accogliere” le appetitose partecipazioni strategiche facendo diminuire, e non alzare, il debito. Un'operazione-dismissioni fruttuosa a breve e sul piano formale addirittura una “privatizzazione” grazie ad una Cdp, soggetto pubblico e privato insieme, sempre più impegnata in operazioni di “sistema”.
Naturalmente, l'operazione finirà anche sotto gli occhi dell'Europa, che anche dopo le elezioni continuerà a sorvegliare l’evoluzione del debito italiano. E c'è da ricordare anche che in seno ad Eurostat (l’ufficio statistico europeo) era affiorata l’idea di considerare piuttosto la Cdp, sempre più chiamata in causa dal governo, dentro il bilancio dello Stato e non fuori. Sta di fatto, comunque, che dietro le dismissioni, messe a bilancio, ballano ben 18 miliardi. E il tempo stringe.
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