Nei 158 anni dall’unità, l’Italia ha avuto per 127 anni un debito pubblico più alto della media degli altri Paesi che oggi formano il G7. Pur essendo quindi storicamente un Paese ad alto debito, l’Italia ha avuto solo due casi minori di default, peraltro insieme a importanti Paesi europei. Fa parte della cultura e del carattere nazionale la convinzione un po’ compiaciuta di essere un Paese indebitato, ma stabile. Bisogna invece chiedersi se negli ultimi anni sia cambiato qualcosa e se la nostra auto-indulgenza sia diventata una pericolosa illusione.
Le cause dell’alto debito italiano dipendono forse dalla debolezza istituzionale di uno Stato creato a metà Ottocento attraverso l’unità di Stati regionali indipendenti, ognuno dotato di proprie antiche tradizioni legali, sociali, culturali e perfino linguistiche. Il deficit pubblico è stato uno degli strumenti attraverso i quali è stato costruito il consenso in un Paese tanto disomogeneo. Dalla seconda guerra mondiale, non c’è stato un solo anno in cui la spesa pubblica non sia stata superiore alle entrate dello Stato.
Nonostante ciò, in alcuni periodi, è stato possibile ridurre il rapporto tra debito e Pil. In particolare a distanza di esattamente cento anni (a cavallo dei picchi di debito del 1894 e del 1994), l’Italia ha vissuto due periodi di accumulazione del debito seguiti da significative riduzioni. Nel primo caso, il successo è stato maggiore. Fatte le necessarie distinzioni, si può ascrivere il maggior successo, dopo il 1894, a un rapporto più equilibrato tra la dimensione della correzione fiscale e la velocità della crescita attesa. L’aspettativa di sviluppo economico è forse il più critico tra i fattori che determinano il successo delle politiche di aggiustamento del rapporto debito-pil. Tra il 1896 e il 1913, politiche fiscali coerentemente nel tempo furono perseguite da una classe politica che, pur divisa su molte questioni e alternandosi al governo, era concorde nel ritenere che una finanza pubblica equilibrata fosse indispensabile alla crescita.
Nel periodo più recente di contenimento del debito, tra il 1995 e il 2007, il calo dell’esposizione rallenta invece anno dopo anno. Il surplus primario, in media pari a 4,7 punti di Pil tra il 1995 e il 2000, scende a 1,3 negli anni successivi. Se, tra il 2000 e il 2007, l’Italia avesse realizzato avanzi primari uguali a quelli del quinquennio precedente, l’Italia avrebbe affrontato la crisi europea con un rapporto debito-Pil simile a quello della Germania (grafico in pagina), un’industria meno innovativa, ma un sistema bancario più solido di quelli tedeschi. È probabile che l’Italia sarebbe stata nella crisi un porto sicuro, beneficiando di flussi di capitali dai Paesi più fragili. Avrebbe avuto maggiore autorevolezza nel determinare le politiche economiche europee.
Secondo i nostri calcoli, in gran parte il mancato aggiustamento è dovuto a errori nelle previsioni di crescita. Negli anni tra il 2002 e il 2006, la crescita stimata dai governi in carica è stata superiore di 2-3 punti di pil a quanto effettivamente realizzato. La domanda è se si sia trattato solo di un errore di previsione o se non sia successo qualcosa di fondamentale nell’economia italiana che non era stato capito e che forse non è stato capito tuttora. Un’ipotesi è che, nel corso degli anni Duemila, in una fase di grande trasformazione industriale globale, il mancato aggiustamento dei conti abbia impaurito gli investitori (ma non i consumatori), convinti che prima o poi l’elevato debito avrebbe implicato un aumento delle tasse e quindi una riduzione dei rendimenti attesi degli investimenti, spingendo a una riduzione degli investimenti stessi e a un calo ulteriore della crescita attesa del Paese. Il meccanismo si è avvitato, fino a portare, crisi dopo crisi, a una crescita potenziale vicina a zero.
Normalmente, definiamo la sostenibilità del debito di un Paese in base al rapporto tra i tassi d’interesse e quello di crescita. Tuttora, anche se questa differenza non è favorevole alla riduzione del debito italiano, la sua dimensione non è tale da rendere il debito insostenibile.
Quello che lo rende difficilmente sostenibile è invece il fatto che la crescita potenziale, o la crescita attesa, sia scesa a zero. Semplificando, si potrebbe dire che a questo livello non c’è un tasso d’interesse abbastanza basso da assicurare la sostenibilità del debito pubblico. Con alto debito e crescita zero, non è nemmeno possibile realizzare politiche anti-cicliche quando l’economia rallenta, cosicché il rapporto debito-pil aumenta sia quando i governi facciano politiche restrittive sia quando realizzino politiche di stimolo. Infine, in condizioni di crescita zero, i problemi distributivi sono così evidenti che diventa politicamente difficile realizzare quelle riforme che potrebbero far accelerare lo sviluppo. In tali condizioni, gli investitori, che sono sensibili agli orizzonti lunghi in un Paese continuamente esposto a crisi economiche e finanziarie, si convincono che in futuro dovranno pagare tasse sempre più alte e che quindi non conviene investire. In tal modo, un circolo vizioso rischia di compiersi quasi inerzialmente, in un silenzio assurdamente compiacente.
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