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«Io, gli Americani e la ricostruzione dell’Iraq distrutto dalla…

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Servizio |a tavola con: Lino Cardarelli

«Io, gli Americani e la ricostruzione dell’Iraq distrutto dalla guerra»

«È il 2003. Appena arrivato a Baghdad un generale americano che ha fatto il Vietnam mi consiglia di scegliere le stanze ai piani bassi, perché i razzi mirano alle sommità degli edifici. Dormo per due mesi al Rasheed Hotel, otto piani in tutto. Una notte i razzi lo distruggono dal quarto piano in su. Io mi salvo perché mi trovo al secondo. Fino al 2005, vivrò in una roulotte protetta da sacchi di sabbia, nel campo militare».

È un giorno di giugno del 2003. Lino Cardarelli, a Roma, riceve una telefonata. Ha 69 anni. Prepara la borsa, non dice nulla alla famiglia e parte con un volo militare. A Kuwait City viene caricato su un C130 dell’esercito degli Stati Uniti. Atterra all’aeroporto di Baghdad. Sale su un elicottero Apache, sorvola la red zone e arriva nella green zone. Cardarelli è l’uomo che, dopo la Seconda guerra del Golfo, ha avuto un ruolo centrale nel team che ha avviato la ricostruzione dell’Iraq. A distanza di sedici anni, racconta per la prima volta l’incredibile avventura – durata in forme diverse fino al 2010 – che ha fatto di un dirigente di industria e di banca il coordinatore di una operazione con un budget da 30 miliardi di dollari, 18 stanziati dagli Stati Uniti e 12 dalla coalizione alleata.

Cardarelli ha scelto il ristorante Quattro Mori, in Largo Cairoli a Milano, per questa A Tavola Con che raccoglie la testimonianza di una seconda vita impensabile e segreta. «Ai tempi di Montedison ero spesso qui a pranzo. I nostri uffici si trovavano a pochi passi. Mario Schimberni veniva raramente. Preferiva mangiare in ufficio». Cardarelli è stato dal 1978 al 1989 amministratore delegato di Montedison International Holding e, dal 1984 al 1989, uno dei due amministratori delegati del gruppo, quello con la responsabilità della finanza e della pianificazione strategica. La sua è una storia di casualità e di geopolitica, di singoli uomini e di grandi blocchi di potere, di incontri personali e di scelte che vengono compiute altrove, senza che tu te ne renda conto.

Cardarelli è un uomo mite: «La mia è una vita da mediano, ha presente la canzone di Luciano Ligabue?», dice con la rotondità degli emiliani (è di Parma), accentuata da una certa prudenza cattolica («ho studiato grazie ai preti, le mie sorelle grazie alle suore») e dall’umiltà della famiglia di provenienza. Il padre Tommaso lavorava per le Ferrovie dello Stato come manovratore degli scambi dei binari, la madre Maria una casalinga. In questo, la Montedison è stata una virtuosa – e “democratica” - anomalia storica nell’industria italiana: una public company con presidente il figlio di un barbiere, cioè Schimberni, e amministratore delegato il figlio di un ferroviere.

«Prendiamo un bianco? Ce l’avranno un vino abruzzese? Le origini dei miei genitori erano lì». No, ai Quattro Mori non hanno bianchi abruzzesi. Alla fine sceglie un pinot bianco Schulthauser di San Michele Appiano. Dopo Montedison, Cardarelli va in Bnl con Nerio Nesi e poi in Banker Trust, la settima banca americana. Nel 2001, durante il Governo Berlusconi, è chiamato a organizzare l’accorpamento fra i ministeri dei Trasporti, dei Lavori pubblici e della Marina che dà vita al ministero delle Infrastrutture e dei trasporti. Nel 2003 il ministero degli Esteri lo coinvolge sul dossier Iraq. «Prima di Montedison ero stato in Snia. Avevo conosciuto Silvio Berlusconi perché avevamo fornito al cantiere di Milano 2 tutte le fibre sintetiche. Frequentavo il Medio Oriente fin dai tempi di Montedison. Una volta al mese, ero lì: un azionista fondamentale di Montedison era la Redec, l’holding dell’Arabia Saudita. Con i soci arabi costituimmo una società, la Incas Bonna, al 49% nostra e al 51% loro, che realizzò strade e ponti a Riad e a Gedda. Operammo a lungo anche nei Paesi vicini, come appunto l’Iraq».

Le immagini dell’archivio di Lino Cardarelli

Lino prende di antipasto verdure cotte: zucchine, carote, spinaci. Io un tortino di porri su un letto di parmigiano fuso. Il 20 marzo 2003 una coalizione guidata dagli Stati Uniti di Bush figlio invade l’Iraq di Saddam Hussein. A metà aprile tutte le città sono cadute. Il 22 maggio il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite approva una risoluzione che sollecita la comunità internazionale a contribuire alla rinascita civile ed economica dell’Iraq.

Quando, nel 2003, riceve la telefonata per partire per Baghdad, Cardarelli non è solo l’ex manager di Montedison che ha operato con i sauditi, alleati storici degli americani. È anche stato l’alumnus della Harvard Business School e il responsabile europeo di Banker Trust che, nel 1992, era andato a Kuwait City per finanziare la ricostruzione della città, distrutta dall’invasione di Saddam Hussein e ripresa con la Prima guerra del Golfo da Bush padre. La cifra “americana” di Cardarelli è evidente. Ma, in questa storia, anche i legami personali contano. Il plenipotenziario in Iraq è l’americano Paul Bremer. «E Bremer – nota quasi per caso Cardarelli – era stato assistente di Henry Kissinger, quando Kissinger era membro dell’advisory board della Montedison e consulente di Schimberni. Appena arrivato gli mandai un biglietto. Lui mi fece rispondere che ci saremmo visti. Al primo incontro, mi disse sbrigativamente: “The situation is changed. Now I’m your boss”».

La prima fase, nel 2003, è gestita dalla Coalition Provisionary Authority. Il Paese è diviso in dieci settori. Molto è distrutto. Una sola strada e una sola ferrovia congiungono Baghdad e Bassora, al confine con il Kuwait. La pubblica amministrazione è destrutturata. Cardarelli è il numero due del ministero che deve sviluppare i progetti sulle risorse idriche: il Tigri, l’Eufrate, 80mila chilometri di canali nel Sud, le dighe. «Giravamo in elicottero affiancati da due Apache con i mitragliatori. Volavamo rasente alle case e agli alberi per non essere colpiti. Arrivavamo, e l’elicottero rimaneva a mezzo metro da terra per potere risollevarsi in caso di pericolo. Una volta a Kirkuk, in Kurdistan, scendendo ho messo male il piede e ho avuto un brutto incidente a una gamba», sottolinea Cardarelli mentre arrivano i secondi: per lui una tartare di tonno, salmone e ricciola, per me una tagliata di filetto con cipolla caramellata.

Nel dopo Saddam la seconda fase – fra il 2004 e il 2005 – è gestita dall’Iraq Program Management Office. Il responsabile è David Nash, un ammiraglio della U.S. Navy. «Nash riportava a Bush Jr, al segretario di stato Colin Powell e al segretario della difesa Donald Rumsfeld. Una volta alla settimana ci si collegava con Washington. Io ero l’equivalente di un executive director, il primo dei non militari». Dieci settori strategici, dieci gare, dieci general contractor. Per esempio acqua, petrolio, energia, educazione, infrastrutture, diritti umani. L’Iraq Program Management Office evolve nell’Iraq Reconstruction Management Office. Il nome cambia, la funzione no. Dal 2005 al 2010 Cardarelli rimane coordinatore della task force Iraq muovendosi fra Baghdad, Amman e Kuwait City. «La leadership era dell’ammiraglio Nash. Io ho fatto il manager. Ho contribuito a risolvere problemi», dice. Come nella canzone di Ligabue: una vita da mediano con dei compiti precisi, a coprire certe zone, a giocare generosi. «In Iraq non c’era più nulla. Tutto arrivava dall’estero. I fornitori non volevano entrare nel Paese, perché nessuno assicurava i carichi. Lasciavano i camion sui confini in Kuwait, Giordania, Turchia. Io feci il giro delle compagnie: Trieste, Parigi, Londra, Monaco di Baviera. Nessuna accettò di assicurare quei carichi che entravano in zona di guerra. Allora assicurai ai fornitori il pagamento pieno dei carichi, in caso di distruzione. Abbiamo perso pochissimi camion».

Arrivati al caffè, Cardarelli si lascia andare. Slaccia leggermente il nodo della cravatta blu, che porta su una camicia bianca e con una giacca grigia. «Non ho mai parlato di tutto questo. Come, dopo il 2010, non ho accettato le proposte di fare business con le relazioni e le conoscenze sviluppate. È stata una esperienza fuori dall’ordinario, per un uomo ordinario come me. Eravamo in una bolla: tutto funzionava perfettamente. Sveglia alle cinque e mezza, primo briefing, colazione, lezione di arabo, e poi al lavoro, a Baghdad nei ministeri o in volo verso i governatorati su un C130 o su un elicottero. Nonostante gli attacchi e gli attentati, sembrava una macchina perfetta. E, dal punto di vista organizzativo, lo era. Non ha funzionato la scelta di fare un repulisti dell’amministrazione baathista, che peraltro si era già in buona parte dissolta perché erano scappati tutti. E non ha funzionato l’ottimismo dei pensatoi americani, come il Weekly Standard, l’American Enterprise Institute, la Brookings Institution e la Ford Foundation, che con sfumature e sensibilità diverse ritenevano che si potesse costruire da zero una democrazia con caratteri occidentali. La violenza degli anni successivi e la nascita dell’Isis hanno dimostrato che così non era. Da tempo, non torno più a Baghdad. Conto di tornarci ancora».

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