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Cultura economica e tecnologia in aiuto dell’Italia che invecchia

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L'Analisi |demografia

Cultura economica e tecnologia in aiuto dell’Italia che invecchia

Con le guerre in via di scomparsa, superate pestilenze e carestie, con il nuovo millennio, l’umanità (occidentale) cercherà di vincere la sfida delle sfide, il “problema tecnico della morte”, nella prospettiva dell’Homo deus, un superuomo che, secondo Yuval Noah Harari, scriverà la storia del futuro. Una speculazione, che troviamo persino avvincente, perché tocca un tasto della storia dell’umanità, che, già oggi, può ostentare una traccia significativa: il marcato allungamento della speranza di vita, con gli straordinari progressi della genetica, del bio-medicale, delle nuove tecnologie per la salute. Investimenti crescenti per una silver economy affermatasi come la terza economia al mondo e fonte d’ingente occupazione.

L’Italia, troppo sfiduciata per dar credito a una futuribile post-umanità, è schiacciata sui temi del momento, sulle emergenze. Quelle politiche riempiono l’informazione quotidiana. L’allungamento della speranza di vita non è che un lontanissimo barlume del futuribile Homo deus. Le classi di governo italiane hanno difficoltà persino a metabolizzare le sfide del futuro prossimo. Con le solite dissonanze cognitive, fanno finta di nulla, perché non vogliono neppure pensare a cosa accadrà entro il 2030, quando la diminuzione della forza lavoro attiva inizierà a incidere negativamente sul Pil italiano, per effetto di una demografia altrettanto negativa (invecchiamento in presenza di bassa natalità, si veda la pagina di inchiesta su Il Sole 24 Ore del 2 giugno).

Riconoscere queste tendenze demografiche e del lavoro obbligherebbe chi governa non al rituale “tira e molla” indecisionista, ma ad assumere decisioni immediate per contrastare la nostra debolezza presente: una crescita deludente a cui fa da pendant un tasso di disoccupazione elevato, in particolare tra donne e giovani (nonostante siano diminuiti di 4 milioni in vent’anni). Al riguardo, ha ragione Alessandro Rosina (Il Sole 24 ore del 2 giugno) a richiamare l’importanza di un cambiamento culturale, promosso da politiche incisive su due nodi: lavoro/ autonomia dei giovani e lavoro/ attività familiari femminili.

Nei prossimi due decenni, potremmo attenuare l’effetto di un dividendo demografico negativo (la riduzione delle nostre forze lavorative) cercando di elevare quanto più la nostra occupazione, includendo giovani e donne. Già, ma come? In presenza di un debito pubblico da record europeo, lo stato d’emergenza impone che non si guardi tanto a come far crescere l’inclusione lavorativa tra donne e giovani, quanto alle politiche di exit dell’offerta di lavoro, cercando di dare impulso a processi di active aging connessi a formazione continua, part-time, innalzamento dell’età pensionabile, ecc., con dietro front inattesi come quota 100 (come dire, lo stato d’emergenza vive e crea la confusione). Il risultato è che di lavoro aggiuntivo neppure l’ombra. Le misure per incentivarlo continuano a tardare come rimangono insoddisfatti anche i presupposti per crearlo: investimenti, innovazione e una sufficiente crescita economica.

L’Italia in sospensione si sta presentando alla terza decade del secolo come un Paese invecchiato, con basse retribuzioni, una forza lavoro attiva più ridotta e un potenziale di job creation limitato da produttività e crescita basse. Il Giappone, Paese tra i più longevi e invecchiati, con un debito pubblico elevato e che già entro il 2030 ridurrà la sua forza lavoro attiva di circa 4 milioni di unità, ha però un potenziale tecnologico di crescita e produttività assai superiore all’Italia. Riesce a gestire meglio l’invecchiamento perché sta percorrendo, da tempo, una via più alta e tecnologica dello sviluppo industriale e dei grandi sistemi infrastrutturali, educativi e delle salute. La tecnologia aiuta economia e lavoro soprattutto nei Paesi sviluppati che invecchiano.

In un contesto globale sempre più segnato dai progressi tecno-economici, per far fronte alle conseguenze dell’invecchiamento demografico sull’economia e sulla ricchezza di un Paese come l’Italia, sembra necessario sfatare un terzo nodo culturale associato all’indecisionismo tipico delle nostre classi dirigenti. Riguarda la mancanza di consapevolezza e di convinzione che per i Paesi sviluppati e invecchiati come l’Italia, c’è un’unica via d’uscita dalla stagnazione e dalla decrescita. In questi Paesi, su cui incombe un dividendo demografico negativo e una crescente automazione del lavoro, l’unica strada percorribile è, innanzitutto, l’innovazione del proprio funzionamento (4.0) sul piano industriale, istituzionale educativo, sanitario. Un cambio di mentalità verso l’Homo technologicus. Paesi come l’Italia hanno quindi bisogno di alimentare produttività e crescita e perciò il proprio potenziale di creazione d’imprenditorialità e lavoro. Una capriola culturale a favore della domanda di lavoro e di politiche educative che preparino i lavoratori a possedere competenze e impegno necessari alla transizione verso nuovi lavori.

Per noi italiani, ormai abituati a fare i conti con trasformazioni di cui ci rendiamo conto solo successivamente, più che familiarizzare con la cultura auto-divinatoria dell’Homo deus, sarebbe sufficiente una maggior dimestichezza con la cultura economica in versione tecnologica e sostenibile.

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