Dopo la tornata elettorale, il governo italiano vuole “sfidare” l’Europa con l’ennesima manovra finanziata col debito, facendo aumentare lo spread sul debito pubblico. Allo stesso tempo Trump scatena una nuova guerra commerciale che vanifica la ripresa e fa riemergere i rischi di stagnazione globale. Sembra di rivedere lo stesso film dell’anno scorso. Allora le Borse mondiali e gli high-yieldcorporate bond andarono in picchiata fine a fine anno. Naturale domandarsi se la seconda parte del 2019 ci riserverà lo stesso disastroso scenario. Per ora no. Ma non è necessariamente una buona notizia per l’Italia.
Sul fronte della guerra commerciale c’è un grossa differenza: allora la banca centrale americana (Fed) era nel mezzo di una prolungata fase restrittiva, con ben cinque rialzi dei tassi nel corso del 2018, nell’errata convinzione di un imminente rischio inflazione. Negli ultimi mesi questa convinzione si è rovesciata: di fronte al rallentamento della crescita dei prezzi (sempre inferiore all’obiettivo del 2%) e della domanda mondiale, la Fed lascia intendere la disponibilità a tagliare i tassi per la prima volta dopo 10 anni. Il mercato già sconta due ribassi, da qui a fine anno, e li considera duraturi (i Treasury a 10 anni rendono meno dei Federal Funds).
L’aspettava dei tagli della Fed sostiene i mercati e spiega la loro reazione contenuta alla nuova guerra commerciale di Trump. Ci dovremmo attendere una reazione ben più violenta nel caso la Fed frustrasse questa aspettativa. Quindi, agirà di conseguenza, dimostrando una volta di più che di fatto sono i mercati a dettare l’agenda della politica monetaria, e non viceversa.
Il taglio dei tassi però può sostenere i mercati solo a breve termine; il vero problema è il dopo. Con i tassi nuovamente in discesa e con titoli in bilancio ancora pari a 20% del Pil, la Fed verrebbe presto a trovarsi in una situazione simile a quella di Bce e Banca del Giappone che stanno esaurendo gli strumenti a disposizione per contrastare efficacemente la prossima recessione. Che a questo punto riusciremo a evitare, riattivando la ripresa, solo con un deciso aumento del commercio internazionale e un ciclo espansivo globale di investimenti pubblici.
Anche nell’Eurozona c’è un’importante differenza rispetto all’anno scorso. Allora il Contratto di governo italiano per la prima volta apriva all’eventualità che lo scontro con l’Europa sulle nostre finanze pubbliche avrebbe potuto portare all’uscita dell’Italia dall’euro, innescando una crisi della moneta unica. L’impatto sul rendimento dei BTp fu immediato, facendolo schizzare da 1,70% a oltre il 3%, e portando lo spread con i Bund a 260. Ma il rischio che l’Italia innescasse una crisi dell’euro spinse al rialzo i rendimenti del debito di tutti i Paesi “periferici” (Grecia, Spagna, Portogallo). Quest’anno la reazione alle dichiarazioni dei sovranisti nostrani è stata molto diversa, confinata unicamente al debito italiano. Dal minimo di 235 punti del 15 aprile scorso lo spread sui BTp è salito fino anche a 290 (262 ieri); ma è sceso quello di tutti gli altri Paesi portando il costo del loro debito ai minimi degli ultimi anni: così a fronte del 2,4% dei Btp a 10 anni, oggi la Grecia paga poco di più, il 2,8%, mentre Portogallo e Spagna appena lo 0,6%.
Una chiara indicazione che la minaccia della crisi nell’euro non è più vista neanche come arma negoziale credibile nei confronti dell’Europa. E che a pagare il conto del debito pubblico italiano saranno solo gli italiani: come – manovra correttiva, governo tecnico, patrimoniale, ristrutturazione, interventi di Bce o Esm con condizionalità – poco importa. In tutta evidenza, i nostri sovranisti non hanno imparato niente, ma proprio niente, dalle vicende della Grecia.
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