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Contratti flessibili per tutelare big e pmi

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Contratti flessibili per tutelare big e pmi

(AdobeStock)
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Nonostante i nuovi equilibri politici post-elettorali rendano più complesso il cammino della proposta di legge sul salario minimo del Movimento 5 Stelle, gli incontri con i sindacati continuano. E, a prescindere dell’esito immediato, è probabile che alcuni elementi delle proposte in campo resteranno nel dibattito anche in futuro. Sono diversi i punti di contatto tra la proposta del Movimento 5 Stelle, le posizioni dei sindacati e, al di là delle schermaglie politiche, la nuova proposta del Pd. L’ostacolo principale resta l’indicazione di una cifra specifica (i 9 euro lordi del M5S) che vede i sindacati fortemente opposti e che il Pd, nella versione rivista della proposta di legge, non menziona più. Superato questo ostacolo, l’accordo potrebbe trovarsi su un’estensione degli accordi esistenti previa la verifica della rappresentanza delle parti firmatarie.

Un’estensione formale dei contratti collettivi nazionali di lavoro avrebbe il merito di combattere i contratti pirata, ridurre le disparità di trattamento tra lavoratori, frenare una competizione al ribasso – e al margine della legalità – tra imprese, stabilizzando il sistema di contrattazione. Inoltre, con copertura dei contratti nazionali elevata (o, meglio, totale), un salario minimo per legge non è necessario e le parti sociali conserverebbero, dunque, piena libertà. Tuttavia, una tale decisione significherebbe anche ignorare le ragioni profonde dietro lo sviluppo dei contratti pirata, cioè l’incapacità del sistema attuale di tenere conto dell’eterogeneità di un “Paese troppo lungo”.

Per evitare un ulteriore irrigidimento dei meccanismi di fissazione dei salari, l’efficacia dei contratti rappresentativi non dovrebbe essere estesa in maniera automatica, ma in base a una valutazione degli effetti economici e sociali che tale estensione può avere. In particolare, l’estensione dei contratti, dovrebbe essere condizionata alla presenza di strumenti adeguati per riflettere l’eterogeneità in termini di dimensioni aziendale e regione. Questo potrebbe prendere la forma di “contratti quadro” che lascino la possibilità di rinegoziare i termini degli accordi a livello di impresa entro certi limiti come in alcuni Paesi scandinavi. Concretamente, i contratti quadro possono prendere la forma di contratti che stabiliscono solo dei minimi essenziali (non intere griglie salariali) oppure limiti minimi e massimi entro cui il contratto aziendale o territoriale può muoversi. Altri tipi di contratti quadro sono “contratti default”, che valgono solo in assenza di un accordo di secondo livello e, in genere, incentivano la rinegoziazione aziendale o territoriale oppure, ancora, contratti senza indicazioni salariali, lasciati interamente al livello aziendale o territoriale. Inoltre, è necessario garantire la possibilità di esenzione dall’estensione sotto determinate condizioni (crisi aziendali, imprese localizzate in aree depresse). Al momento queste norme sono lasciate ai singoli settori senza regole generali. Tuttavia, in assenza di adeguati margini di aggiustamento territoriale e aziendale, è probabile che le imprese nelle aree in difficoltà troveranno modi di contornare le nuove regole oppure che i salari nelle zone più ricche vengano ulteriormente compressi per prendere in conto le situazioni più difficili in altre regioni.

Sorprende, quindi, che nel dibattito in corso sul salario minimo, che non è altro che un dibattito sul sistema di contrattazione collettiva, si pensi di procedere a un’estensione per legge dei contratti collettivi come funzionano ora. Margini di flessibilità nel sistema di contrattazione collettiva esistono in moltissimi altri Paesi. Dove non erano presenti sono stati introdotti durante la crisi. Che i sindacati stiano orientando la discussione verso un’estensione erga omnes generale è comprensibile. Probabilmente non dovrebbe sorprendere che anche le parti datoriali stiano di fatto accettando questa soluzione (almeno interpretando il silenzio come un assenso). Al di là dei vantaggi per i lavoratori, i contratti collettivi, specie se estesi a tutte le imprese, rappresentano uno strumento di controllo del mercato per gli insider (tipicamente grandi imprese che fanno parte di associazioni datoriali) contro gli outsider (Pmi, startup e concorrenti internazionali che non ne fanno parte).

Il legislatore, però, deve farsi carico dell’interesse generale e se la scelta (legittima e, a certe condizioni, apprezzabile) sarà quella di non procedere con un minimo legale, ma di rafforzare la libertà contrattuale, come minimo, è necessario chiedere alla contrattazione di farsi carico di trovare soluzioni alle differenze di competitività territoriali e alle crisi aziendali.

(* Direttorato per l’Occupazionee gli affari sociali dell’Ocse)

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