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Quota 100, chi ignora Samuelson lo fa a nostro rischio e pericolo

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Quota 100, chi ignora Samuelson lo fa a nostro rischio e pericolo

(Ap)
(Ap)

Alle pensioni liquidate dopo la riforma Fornero, entrata in vigore nel 2012, concorrono due quote: la maggiore è la pensione retributiva maturata prima della riforma stessa, mentre l’altra è la pensione contributiva maturata dopo. Alla pensione retributiva del “quotista” di sesso maschile che nel 2019 compie 62 anni d’età e 38 d’anzianità contributiva, danno diritto i contributi versati fra il 1981 e il 2011. Assumendo che, in termini reali, il suo salario annuo sia cresciuto al tasso “normale” dell’1,5% e, per semplicità, supponendo uguale a 100 euro l’ultima sua retribuzione annua, tali contributi ammontano a 673 euro. Il totale delle prestazioni corrispondenti è di 2.043 euro. Infatti, ai 1.550 della pensione diretta, percepita dal quotista fino al 2043 nella misura di 62 all’anno, si sommano i 484 della pensione di reversibilità successivamente percepita dal coniuge superstite fino al 2056 nella misura di 37 all’anno.

La cospicua differenza lascia presagire che i contributi beneficiano di una remunerazione implicita molto elevata. Confrontando il calendario dei versamenti con quello delle rate di pensione, la matematica finanziaria consente di esplicitare un tasso annuo di rendimento superiore al 3% in termini reali.

Sono passati oltre 60 anni da quando, nel 1958, il futuro Premio Nobel per l’Economia Paul Samuelson dimostrò che i sistemi a ripartizione possono restare in pareggio se, e solo se, le loro regole (aliquota contributiva, requisiti di accesso alla pensione, sistema di calcolo e indicizzazione) implicano una remunerazione dei contributi uguale al tasso di crescita dei redditi da lavoro (base imponibile della contribuzione). Il teorema è un prezioso strumento nelle mani dei governi perché consente di valutare a priori la sostenibilità dei provvedimenti prima di vararli. In Italia, la massa dei redditi da lavoro dipendente è cresciuta in media poco più dell’1% all’anno negli ultimi 40 anni, con un trend decrescente che le prospettive demo-economiche difficilmente potranno invertire. Perciò quota 100 remunera i contributi in misura tre volte superiore al dovuto.

Pur essendo finanziariamente insostenibile, il provvedimento servirà almeno a ridurre la disoccupazione giovanile? Così sarebbe se i livelli occupazionali non fossero “vischiosi verso il basso”, cioè se le imprese potessero diminuirli liberamente in base alle loro mutevoli convenienze. In tal caso, i livelli attuali sarebbero ottimizzati e il turnover sarebbe necessario a preservarli. Nel mondo reale sono invece presenti vischiosità di vario tipo che potrebbero aver generato “esuberi”. In tal caso, quota 100 sarebbe l’occasione per eliminare questi ultimi e il turnover non potrebbe quindi essere completo.

Pur ammettendo che lo sia, la disoccupazione diminuirà senza che l’occupazione aumenti. Perciò il gettito contributivo resterà invariato, mentre i pensionati e la spesa pensionistica cresceranno. Nel medio termine, lo sbilancio sarà tamponato con misure inique. Infatti, il raffreddamento dell’indicizzazione abbatterà ulteriormente il potere d’acquisto di pensioni anche modeste, già decurtato da analoghi provvedimenti dei governi precedenti. Il contributo di solidarietà, anch’esso già abusato, è indiscriminatamente imposto alle pensioni d’oro senza far salve quelle “meritate”, cioè equivalenti ai contributi versati. Infine, l’indebitamento pubblico addossa l’onere di quota 100 ai discendenti delle generazioni beneficiate. A lungo andare, l’aumento strutturale della spesa richiederà l’aumento dell’aliquota contributiva che, in barba all’auspicata riduzione del cuneo fiscale, accrescerà il costo del lavoro con effetti sull’occupazione opposti a quelli auspicati.

Il ministro Salvini si rammarica di aver dovuto rinviare “quota 41” che avrebbe aperto la porta della pensione a 56 anni per i maschi avviati al lavoro subito dopo aver assolto all’obbligo scolastico. In realtà, occorre guardare non solo “indietro”, cioè agli anni lavorati che possono sembrare molti, ma anche “avanti”, cioè alle annualità di pensione che sono perfino di più. La pensione percepita a 56 anni avrebbe una durata di 44 che farebbe balzare il rendimento dei contributi ben oltre il 3%.

La morale è che i sistemi pensionistici devono fare i conti con la longevità crescente: se non si vogliono tagliare le pensioni, occorre rassegnarsi a prenderle a età sempre più elevate.

(* Professore di Economia politica all’Università La Sapienza di Roma)

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