All’ultimo Festival dell’economia di Trento Lars Feld, membro del Consiglio tedesco degli esperti economici, si è espresso così a riguardo della posizione italiana: «Se l’Italia non abbandona parte della sua sovranità fiscale, non potrà mai ottenere la solidarietà che desidera».
È stata un’affermazione rilevante, che ha messo in evidenza un tipico stereotipo sulla posizione italiana riguardo le regole fiscali a fronte della nostra perdurante e intensa crisi che si trascina da anni.
Mi sono trovato al tavolo del dibattito a sostenere come ci dovesse essere un equivoco, perché l’Italia non sta chiedendo solidarietà; sta chiedendo maggiore autonomia fiscale, che è tutt’altro.
L’Italia non chiede solidarietà per due diversi ordini di motivi. Il primo, è perché sa che non le verrà concessa. E non perché la Germania non sia capace di dare solidarietà: il maggior esercizio di questa dal dopoguerra in poi, in Europa, è stato proprio quello che i tedeschi dell’Ovest hanno effettuato a favore dei fratelli dell’Est all’indomani della caduta del muro di Berlino. Il problema è che italiani (o greci) a oggi non hanno un grado di parentela simile: sono al massimo lontani cugini di quarto grado. Certo, l’Unione europea è stata creata proprio nell’intento di avvicinare questi gradi di parentela; essa idealmente si evolve esattamente all’inverso di un nucleo familiare, con i figli dei figli dei miei figli che diverranno fratelli dei figli dei figli dei figli del mio collega economista tedesco. Che non sia ancora tempo di solidarietà reciproca in Europa – come non lo era negli Stati (ancora poco) Uniti d’America del XIX secolo – è provato dal totale disinteresse politico europeo che generalmente si accompagna a proposte fondamentalmente solidali come gli eurobond o il sussidio europeo di disoccupazione, che non sono altro che un trasferimento, oggi, dai contribuenti tedeschi a quelli italiani (o greci).
Il secondo motivo, più sottile, ha a che vedere col fatto che – specie in assenza di esplicita fratellanza – la solidarietà, anche qualora concessa, ha un che di paternalista e indulgente e un popolo come quello italiano difficilmente si piegherebbe a richiederla.
Quando l’Italia non obbedisce alle regole fiscali europee (come ha fatto questo Governo presentando per ben due volte documenti di economia e finanza che non convergono al bilancio in pareggio nel triennio successivo) manifesta piuttosto un’altra richiesta: quella di liberarsi di regole che non le permettono di esercitare una politica autonoma a sostegno della propria economia.
In un momento in cui le regole europee sono state messe in discussione addirittura dall’ortodossissimo European fiscal board (figlio dello stesso Fiscal compact) nel suo ultimo rapporto e in cui certamente una modifica di queste arriverà presto sul tavolo delle riforme del nuovo Parlamento europeo e della nuova Commissione europea, l’Italia non deve dunque sentirsi un pariah nel portare avanti delle proprie proposte di riforma, tanto più se si considera che il Fiscal compact ha fallito in maniera evidente solo per i Paesi più in difficoltà e che quindi una riforma si rende più urgente e indispensabile proprio per aiutare Paesi come l’Italia e la Grecia a uscire da una crisi in cui le attuali regole austere non hanno fatto altro che invischiarle ancor di più, mettendo a rischio l’Europa tutta.
Ora, se guardiamo alla storia del percorso del XIX secolo statunitense quanto a regole fiscali, scopriamo calzanti analogie con l’Europa odierna (in fondo, si potrebbe azzardare, gli stati degli Stati Uniti di allora erano diversi tra loro come lo sono gli stati membri dell’Unione oggi): in particolare si nota come i singoli stati erano responsabili per i loro livelli di spesa, tasse, deficit e debito; insomma avevano sovranità di politica fiscale. Onori ed oneri tuttavia: quando a metà dell’Ottocento il Tennessee, avendo investito male i soldi ricevuti a prestito dai mercati per effettuare spesa inutile su progetti faraonici, chiese a Washington DC di essere aiutato a ripagare le banche, si sentì rispondere: «No, nessun bailout». Finì che il Tennessee decise di fare default, con banche imprudenti e cittadini locali che ne pagarono il prezzo. Fu soltanto quando l’America divenne veramente unita e solidale, negli anni 30 del secolo scorso, che le regole fiscali di bilancio in pareggio si vennero a imporre nei singoli stati. Ma questo poté essere fatto perché c’era un nuovo attore, lo stato federale centralizzato, che operava esso stesso in deficit quando necessario, per il bene di chi ne avesse avuto bisogno in momenti di crisi.
Un’unione di diversi – questa è la lezione del passato – non può essere lasciata senza una possibilità di usare i deficit in momenti di difficoltà: o questi si fanno a livello centrale (ma in Europa è oggi troppo presto, dovremo aspettare la tanto agognata fratellanza in un’unica comunità politica federale, che solo il tempo potrà sperabilmente generare) o si lasciano a livello locale. Ma a una condizione: che i bailout, i salvataggi dei governi nazionali da parte dell’Europa, siano strettamente vietati. Spetterà ai vari governi italiani di turno convincere i mercati della bontà dei propri deficit (e non ci sorprenderebbe se ci riuscissero solo qualora abbandonassero progetti inutili come i recenti provvedimenti di quota 100 e reddito di cittadinanza a favore invece di dosi massicce di investimenti pubblici) e alle banche tedesche e francesi di convincersi che i salvataggi ottenuti in occasione della crisi greca non si ripeteranno più.
È evidente che in fase di negoziazione questa posizione potrebbe trovare un compromesso finale nella tanto agognata golden rule che permette bilanci correnti in pareggio e spazio per investimenti pubblici in deficit fino a un massimo del 3% del Pil. Una posizione negoziale italiana di questa fattura potrebbe avere ben maggiore ascolto che le follie dei mini-Bot e avere il merito di ridare ossigeno vitale per la continuazione della costruzione europea.
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