Dai massimi rappresentanti della commissione europea (Valdis Dombrovskis) ci giungono richieste di «correzioni sostanziali» sui nostri conti pubblici. In altri termini ci viene chiesto di indicare le modalità reali attraverso le quali si deve portare l’Italia su un sentiero di riduzione del rapporto debito/Pil. Ci sono varie strade per perseguire questo obiettivo e la peggiore è quella di aspettare che qualcuno ce lo imponga. Purtroppo è quello che sta accadendo perché ormai da molti anni, non riusciamo a impostare una politica economica dai contenuti virtuosi. Peraltro nelle situazioni di maggiore emergenza sugli equilibri di bilancio si ritorna come ultima spiaggia a valutare la riduzione della spesa pubblica; essendo questa per molti la via più semplice cui far ricorso per risanare i conti.
Ma se la strada è di fatto così semplice e virtuosa, perché i risultati dei numerosi e autorevoli commissari e supertecnici nominati per lo scopo sono stati così deludenti? Essenzialmente perché ci illudiamo che il nodo gordiano in cui è imprigionata la nostra economia da almeno un decennio si possa sciogliere con approcci artigianali improvvisati e semplicistici fondati su slogan stravaganti che trascurano del tutto dati di base oggettivi e leggi macroeconomiche ineludibili.
Un primo dato che non si può trascurare è che la nostra spesa primaria è già, pensioni a parte, tra le più contenute d’Europa in molti settori. Gli spazi di manovra reali per un suo ulteriore contenimento, come affermava già nel 2012 uno dei massimi esperti della materia (Piero Giarda), sono limitati.
I cosiddetti “tagli lineari” a cui hanno fatto ricorso molti governi negli ultimi 15 anni hanno prodotto danni rilevantissimi. Attuati per gestire le emergenze impellenti, senza una attenta programmazione economica finanziaria hanno determinato una pura riduzione di risorse disponibili per la spesa e non un’effettiva riduzione dei fabbisogni di spesa. Per questo hanno finito per provocare effetti largamente disfunzionali e degenerativi tra i quali crescita abnorme dei debiti commerciali delle Ppaa non pagati alle scadenze; riduzione della spesa più idonea a creare sviluppo e cioè gli investimenti pubblici; avvilimento di attività pubbliche essenziali come la scuola, la sanità, la sicurezza, l’ambiente, la cultura; incrementi della tassazione a livello locale.
Le leggi macroeconomiche non eludibili sono quelle che riguardano i “moltiplicatori fiscali” che misurano le intensità di variazione del Pil corrispondenti alle variazioni delle leve fiscali che contribuiscono alla sua formazione.
I moltiplicatori della spesa pubblica, secondo autorevoli economisti, sono molto elevati. Ciò implica che la sua riduzione, soprattutto in fasi di sofferenza dell’economia, produce nell’immediato un effetto negativo sul Pil considerevole che a sua volta produce nuovi bisogni di spesa sociale. E il fenomeno tende a consolidarsi ulteriormente se nel tempo la minore spesa pubblica non viene compensata dalla crescita della spesa privata.
Dal 2000 a oggi la nostra spesa primaria in rapporto al Pil è sempre stata inferiore alla media dell’area euro anche nelle fasi in cui la nostra perdita di Pil è stata più accentuata degli altri Paesi europei. Per contro la pressione fiscale che nel 2000 era di quasi un punto percentuale più bassa dell’area euro è ora di circa un punto più alta.
I tagli alla spesa primaria finalizzati a ridurre la pressione fiscale per rilanciare il Paese, sono dunque nella situazione data una equazione che non torna.
Tuttavia queste considerazioni non vanno recepite in modo distorsivo, concludendo che i governi in carica non possono intervenire per attuare una razionalizzazione della spesa pubblica. Anzi ciò è assolutamente possibile, purché lo si faccia evitando di intervenire con approcci emergenziali in momenti in cui la spesa privata non cresce; efficientando i processi di formazione della spesa e uniformando le best practice degli enti in tutti i territori del Paese; snellendo l’apparato pubblico attraverso la eliminazione delle strutture pletoriche; portando su un sentiero di riduzione progressiva correlata le componenti di spesa più sbilanciate rispetto al Pil nominale, man mano che questo tende ad espandersi.
C’è spazio quindi per essere ottimisti? Nulla lo lascia credere. Il Paese sul fronte economico resta impantanato tra i suoi problemi cronici perché i maggiori opinion maker continuano a rincorrere soluzioni facili, indisponibili e/o controproducenti per chi ha un eccesso di debito di circa 800 miliardi di euro rispetto alla media europea nel rapporto debito/Pil. Facendo finta così che il nodo gordiano non esista.
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