Gli Stati Uniti, resi ansiosi dal timore del declino competitivo, fanno sempre più affidamento sull’hard power dell’economia, della tecnologia e della forza militare. La guerra fredda dei dazi, avviata contro la Cina, ma estesa anche a colpire gli alleati europei, e rilanciata contro il Messico, ne è la manifestazione più destabilizzante.
Per ora l’economia americana è forte, anche se l’attività industriale mostra segni di debolezza. Così la crescita cinese, pur stabilizzatasi a +6,4% nel primo trimestre 2019, registra un calo della produzione manifatturiera in maggio. Pechino ha diversi appigli per migliorare i rapporti con gli altri Paesi o con la stessa business community statunitense, ma ha anche spazio per aumentare la domanda interna, come raccomandato dalla Banca mondiale.
Una volta che Trump ha cancellato la Trans-Pacific partnership (Tpp), siglata da Obama per accerchiare e poi impegnare Pechino con un sistema internazionale a guida Usa, adesso una Cina sempre più autocratica ed espansionista appare alla maggioranza degli americani come una minaccia esistenziale per l’ordine mondiale.
Il punto è che quest’ordine non è più quello basato sul sistema di alleanze e sul multipolarismo promosso da Washington nel secondo dopoguerra. Già l’unilateralismo di George W. Bush ne aveva posto in discussione le basi. Trump, dopo alcune incertezze della presidenza Obama, ci ha messo del suo, rivelandosi per certi aspetti altrettanto autocrate del suo omologo cinese.
Le tariffe imposte da Washington sull’import di beni cinesi si calcola che costeranno agli Usa la perdita di 200mila posti di lavoro. Le misure più estreme sul complesso dell’import cinese raddoppierebbero l’emorragia di posti di lavoro oltre che i costi per le famiglie. La ritorsione di Pechino ha un impatto negativo in particolare sull’export dei prodotti agricoli americani e nel settore dell’energia. Il minacciato embargo sull’export di terre rare verso gli Usa colpirebbe invece l’industria high-tech e il settore della difesa statunitensi.
In gioco tra Washington e Pechino non c’è soltanto il deficit commerciale americano, quanto la leadership e la governance mondiale. Il commercio è solo un aspetto della reciproca sfiducia e rivalità che si allarga a comprendere la politica, la tecnologia e le forze armate.
Un anno fa il presidente americano, dopo i dazi sull’acciaio e sull’alluminio che hanno colpito anche l’Ue, ha minacciato tariffe del 25% sulle auto, in primis tedesche. Benché per ora congelate, queste tariffe potrebbero costituire il grimaldello con cui il presidente americano cerca di indurre gli europei ad aprire le trattative anche sulla politica agricola europea, un contrafforte intoccabile per l’Ue e, soprattutto, per la Francia. Trump, approssimandosi le elezioni presidenziali americane, cerca di compensare i farmer, una componente cruciale del suo elettorato pesantemente danneggiata da un anno di guerra commerciale con la Cina, con il miraggio del ricco mercato europeo. Anche la promessa di un “fenomenale” accordo di libero scambio appena fatta baluginare al Regno Unito riguarda, fra l’altro, il settore agroalimentare americano.
Intanto l’export di Pechino verso gli Usa è diminuito del 9% su base annua, mentre quello americano è crollato del 30 per cento. Il disavanzo commerciale “a stelle e strisce” si è ridotto del 12%, ma a pagare il conto sono stati soprattutto i consumatori e gli agricoltori per i quali il governo federale ha dovuto varare anche vari sussidi. Si calcola inoltre che i dazi sull’acciaio costino ai consumatori statunitensi 11,5 miliardi di dollari.
In questo scenario, gli alleati europei sono stati ridotti da Trump al rango di approfittatori del sistema di libero mercato per “uccidere” l’America. Se le cose stanno così, il futuro dei valori liberali legati al capitalismo occidentale rischia di svanire nel confronto con l’autoritarismo economico e politico che non è più una prerogativa di Pechino, ma appare anche come una manifestazione del potere di Washington.
D’altronde, la storia insegna che i dazi, in un’economia globalizzata, sono un’arma di breve gittata, che non può annientare un Paese, ma i cui costi vengono pagati dai consumatori. La partita si gioca su un campo più vasto. La Cina, pur avendo ridotto le esportazioni verso gli Usa, ha aumentato quelle verso i Paesi in via di sviluppo dell’Asia, compensando in parte la domanda in calo delle economie avanzate. In pratica, un decennio dopo la crisi finanziaria la quota dell’export di Pechino in Asia è raddoppiata.
I dazi bilaterali sono un’arma spuntata per la sovracapacità globale. Secondo il Peterson institute for international economics, i beni cinesi, penalizzati sul mercato Usa, potranno continuare a essere competitivi in Cina, in Europa e quasi ovunque nel mondo, finendo col danneggiare anche le prospettive degli esportatori americani.
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