Abbiamo conquistato solamente un po' di tempo. Alla riunione di Bruxelles dei ministri economici e finanziari dell'Eurozona (Eurogruppo), il governo italiano ha ottenuto di spostare di qualche giorno la decisione sulla procedura d'infrazione per il nostro eccessivo debito pubblico. Niente di più. Viviamo alla giornata, senza una strategia sul dopo-giornata. In quella stessa riunione, infatti, si è discusso della creazione di un bilancio dell’Eurozona, un tema cruciale per noi visto che il nostro debito ci impedisce di adottare politiche fiscalmente espansive. Eppure, su di esso, il governo italiano non ha potuto dire nulla, non avendo la credibilità di chi è impegnato a rispettare le regole europee.
Vale comunque la pena di domandarsi, cosa converrebbe all’Italia nella riforma dell'Eurozona? Io risponderei così.
L'Eurozona si basa su un modello di “coordinamento fiscale” alquanto controverso. Essa ha un'unica politica monetaria e 19 politiche fiscali. Gli Stati hanno difeso la loro sovranità fiscale con le unghie e con i denti. Tuttavia, dovendo condividere la stessa moneta,
hanno dovuto accettare di regolamentarla sempre più strettamente, in particolare durante le crisi dell'ultimo decennio. Così,
ad una sovranità formale è venuta a corrispondere un vuoto di sovranità sostanziale. La politica di bilancio di ogni Stato
membro dell’Eurozona è condizionata dagli altri Stati membri e dai regolamenti concordati per garantirsi reciprocamente.
Di qui, l'invasività delle regole fiscali europee nelle politiche fiscali nazionali. Regole che hanno finito per contraddire
le preferenze degli elettorati nazionali, quando queste ultime conducevano ad esiti di politica pubblica incoerenti con esse.
Là dove la contraddizione è risultata più evidente, come in Italia o in Grecia o in Spagna, non c'è voluto molto da fare per
incendiare il pagliaio della frustrazione popolare. Data la logica del modello, tale invasività è stata inevitabile, se non
si voleva che alcuni Stati trasferissero su altri le loro interne incongruenze. Tuttavia, ciò che è reale non sempre è razionale.
Infatti, l’Eurozona avrebbe potuto adottare il modello alternativo della “capacità fiscale” per tenere in equilibrio la politica
monetaria gestita dalla Banca centrale europea. Questo modello (proprio di unioni di Stati come gli Stati Uniti e la Svizzera)
riconosce le differenze strutturali tra gli Stati membri, ma lascia al mercato il compito di valutare i loro comportamenti
fiscali (negli Stati Uniti, già dagli anni Quaranta del XIX secolo, i comportamenti viziosi di alcuni Stati avevano condotto
alla loro bancarotta finanziaria). Capacità fiscale vuole dire una cosa semplice: dotare l’Eurozona di entrate fiscali che non dipendono dai trasferimenti dei suoi Stati membri. Come disse Alexander Hamilton nel 1788 (Convenzione di New York per la ratifica della nuova costituzione), «se abbiamo national
objects (cioè obiettivi federali), dobbiamo avere national revenues (cioè entrate federali)».
Queste ultime possono provenire da fonti diverse. Da un debito garantito dall’Eurozona oppure dalla tassazione di specifiche attività. Una ricerca dell'autunno 2018, condotta da Thomas Wozniakowski (Hertie School of Governance di Berlino) e Miguel Maduro (EUI di Fiesole), ha mostrato come, in undici Paesi europei (tra cui Germania e Francia), vi sono maggioranze di cittadini favorevoli ad una tassa sulle emissioni di carbone, sulle attività delle web companies oppure sulle transazioni finanziarie (oltre che sull'armonizzazione della tassazione dei profitti d'impresa).
Questo modello richiederebbe che tali risorse fiscali venissero raccolte da Bruxelles e gestite dal Parlamento europeo. Non si tratta, dunque, di trasferire (in astratto) sovranità fiscale dalle capitali nazionali a Bruxelles, ma di dotare
quest'ultima delle risorse per perseguire i suoi obiettivi (specifici). In questo modo, il governo dell’Eurozona (comunque
definito) potrebbe rispondere a shock asimmetrici o a future crisi. Olivier Blanchard, ex capo-economista dell'Fmi, ha scritto
(Project Syndacate, 7 giugno) che l'Eurozona dovrebbe disporre di «un budget comune, finanziato da euro bonds, che può essere
usato per finanziare una maggiore spesa in ogni Stato membro, quando e se necessario». Christine Lagarde, direttore dell'Fmi,
ha aggiunto che quel budget potrebbe essere usato per politiche di stabilizzazione dell’intera area, non solo per sostenere
le politiche nazionali di convergenza e competizione. Eppure, nella riunione dell'altro ieri, l'Eurogruppo ha preferito rimuovere
la questione, come ha riconosciuto il suo presidente Mario Centeno.
E l'Italia? Spetterebbe agli Stati dell'Eurozona poco o punto soddisfatti dello statu-quo, come il nostro, premere per dotare
l’Eurozona di una capacità fiscale. Cosa, peraltro, proposta dal Rapporto dei 4 Presidenti (2012), dal rapporto dei 5 Presidenti
(2015), dal Gruppo di alto livello presieduto da Mario Monti (2016), dalla dichiarazione franco-tedesca di Meseberg (2018),
dai governi francese e spagnolo pochi giorni fa. Saremmo in buona compagnia. Per di più, l’uscita del Regno Unito potrebbe
fornire l'occasione per avanzare verso tale capacità fiscale. Nel Rapporto presentato al Parlamento europeo nel febbraio 2019,
Federico Fabbrini (Dublin City University) argomenta come la riduzione significativa del bilancio dell'Ue che si verrà a creare
con Brexit (il Regno Unito è tra i quattro maggiori contribuenti) potrebbe essere compensata dalla creazione di risorse proprie,
piuttosto che da un incremento dei contributi dei Paesi più grandi. La prima creerebbe meno resistenze della seconda. Non
sarebbe il caso che l’Italia dica qualcosa, ora che sta partendo la trattativa per definire il quadro finanziario pluriennale
del 2021-2027 dell'Ue?
Insomma, invece di chiedere tempo, il governo italiano dovrebbe proporre riforme. Cosa che può fare solamente se rispetta le regole
esistenti. L’Eurozona può essere riformata, se si ha credibilità e strategia. Invece di baloccarsi con idee bizzarre come i mini-Bot o ascoltare esperti fai-da-te, il governo italiano dovrebbe finalmente capire che è alla guida di un Paese industrialmente
avanzato.
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