Le metamorfosi del salto d’epoca, da una società con mezzi scarsi e con fini certi a una con mezzi iper potenti e fini incerti, rendono urgente aprire una riflessione sulle imprese e dentro le imprese. Per trovare un nuovo equilibrio tra imprese e società. Per una volta occorre essere radicali. Andare alla radice dei problemi che riguardano l’uomo e il suo rapporto con un’economia che sembra destinata a sbattere contro i suoi limiti sociali oltre che ambientali. Usando un’espressione antica occorre ripensare a un nuovo umanesimo industriale. Tenendo assieme i lavori, l’innovazione, il pensiero tecno-scientifico, il potenziale delle nuove macchine intelligenti e la scelta di quale modello d’inclusione sociale intendiamo realizzare. Per lungo tempo l’industrialismo e la fabbrica sono stati sinonimi di una cultura che legava crescita quantitativa e consumo illimitato delle risorse all’idea di progresso. Oggi, il limite ambientale, sociale, demografico e il tema di lavori, è il vero campo ove ripensare il paradigma della crescita e la nostra cassetta degli attrezzi.
Prendo spunto dall’ultimo libro che Antonio Calabrò ha titolato “L’impresa riformista” (Egea - Università Bocconi Editore). Con una visione che traghetta «la morale del tornio» sulla sponda del 4.0. Ritengo che anche in una società dei flussi come l’odierna «la proprietà obblighi» (Max Weber) a concepire l’impresa non solo come una macchina per fare profitti, ma come un’istituzione. Anzi, secondo Calabrò, nella crisi politica di oggi una delle poche ancora in campo. L’impresa riformista sta dunque nella società ed è motore di un ripensamento dello sviluppo. Una cellula di comunità per fare società per dirla con Adriano Olivetti. Non è un’oasi in un deserto, un fortilizio in una società ostile: è un organizzatore sociale capace di dare senso alle forme dei lavori e ai rapporti sociali intorno a sé. Una sorta di proiezione pubblica di una comunità operosa composta da imprese, mondo delle autonomie funzionali e delle reti, pezzi di società di mezzo e imprese sociali. Concezione che aggiunge alla funzione dell’impresa come ascensore sociale anche nuovi temi come la sostenibilità.
Nel libro, il vice presidente di Assolombarda, la colloca nella dimensione europea, mediata in Italia dalla vocazione continentale di Milano a fare da interconnessione tra le piattaforme produttive del Paese. Si pone il problema di quanto sarà in grado di incorporare e generalizzare questa visione “riformista” l’ossatura di una nuova generazione di medie imprese cresciuta in questi anni nelle piattaforme territoriali. Faccio notare che dobbiamo però uscire da una retorica (Milano in primis) tutta centrata sul racconto delle eccellenze. Se immettiamo il motto weberiano nella contemporaneità questo diventa «l’innovazione obbliga». Intendendo con ciò la capacità dell’innovazione di produrre senso, valori e lavori per tanti, oltre che valore per pochi. Per capire, basta guardare alle manifestazioni sindacali dei metalmeccanici, al disagio dei rider e alle fibrillazioni nelle reti distributive tipo Amazon. Da qui l’esigenza di forme di rappresentanza che provino a ripensare una formazione collettiva che sia umanistica, in quanto capace di accompagnare le persone a vivere il salto tecnologico con senso e coscienza. Una “disciplina dell’animo” di una cultura della tecnica che re-incorpora il tema della redistribuzione collettiva dei vantaggi esponenziali che potenzialmente l’intelligenza artificiale e le macchine che imparano, potrebbero produrre per tutti.
Non si tratta di postindustriale, anzi, alle imprese italiane servono tecnici, ma tecnici di una cultura in grado di gestire il rapporto con la macchina facendo comunità all’interno della fabbrica e da qui rafforzare la coesione anche nella società. Una cultura dell’impresa riformista che re-incorpori il tema della redistribuzione collettiva di senso e di reddito e dei vantaggi esponenziali che potenzialmente l’intelligenza artificiale e le macchine che imparano, potrebbero produrre per l’umanità. In Italia, per il nostro capitalismo di territorio più che di retoriche postindustriali, c’è bisogno di una cultura d’impresa e di una politica che comprendano quanto oggi l’idea di industria, che non coincide soltanto con il tema del manifatturiero, vada estesa al campo della sostenibilità ambientale, sociale, demografica, del welfare e dell’invecchiamento, della genetica e della medicina personalizzata... È proprio un salto d’epoca e molto dipenderà dal come saremo capaci di lavorare a un patto tra una forte comunità di cura e un’impresa nuovamente riformista.
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