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Questo articolo è stato pubblicato il 19 giugno 2013 alle ore 14:24.
L'ultima modifica è del 22 novembre 2014 alle ore 17:27.

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Sara, invitante sorriso di Abbiategrasso, 29 anni, pantaloni scuri, ballerine crema, lunghi pendenti piatti e argentati, dice alla telecamera: «Sì, sono quella del pesce, la mia passione è il pesce, lo vendo all'ingrosso ai ristoranti, al mercato ittico, sono andata a fare il terzo figlio con addosso la puzza di pesce. Poi ho messo un cubo trasparente in mezzo alla pescheria, una cosa più sofisticata, insomma sono entrata nella ristorazione, è andata bene, ho quadruplicato il fatturato in due anni e aperto un locale in corso Buenos Aires». Così tre figli come crescono? «Con me e la tata, ci sono due papà che li vedono quando vogliono ma li cresco io, con la tata. La settimana scorsa sono andata in Spagna per lavoro, io, i tre e la tata». Nel caso in cui le cose non dovessero andare il piano B è «amici che stanno comprando terreni in Australia, una cosa importante, c'entrerebbe pure la pesca, in caso carico bimbi, tata e vado. Comunque più importante dell'Expo sarà sempre il food e il pesce va fortissimo, soprattutto a Milano». Cosa c'entra questa vita con un reality show? «Ho visto le puntate, si tratta di lavoro, nella prova della vendita del pesce avrei vinto, comunque senza vedere dieci settimane i bimbi non posso stare, impossibile. Grazie, buongiorno».

L'ideale candidata a qualsiasi cosa si scarta da sola, non farà The Apprentice, programma pensato da Donald Trump, importato l'anno scorso in Italia su Cielo, dal prossimo gennaio, seconda stagione, promosso su Sky Uno, in palio un lavoro con Flavio Briatore, "Boss" della trasmissione. Sara è una dei segnalati dalle sigle di imprenditori, associazioni di donne e di startup, nonché università che hanno inviato il curriculum di manager, liberi professionisti, piccoli imprenditori e commercianti, trader, freschi laureati e laureandi della Bocconi. Cinquemila cv, scremati a 3mila - iscrizioni aperte fino al 30 giugno sul sito - qualche capello biondo liscio e lungo in mezzo a tante giacche doppio petto, gessati a righe larghe e strette, cravatte piccole e grandi, capelli corti, qualche ciuffo ma domato, molto blu, poca appariscenza nella hall di un albergo di Porto di Mare, nome in questo caso perfetto di metrò milanese.

250 provini ogni giorno, il 70% uomini, 30% donne, età media 28-30 anni, richiesti cv qualificati. Sfilano così lauree e master, pluriesperienze all'estero, meglio se lavorative, non solo stage. Sull'inglese non si transige, requisito più importante del titolo dottore. C'è un po' di tutto in questa apparente normalità, nessun Luciano Ciotola, il pescivendolo del Reality di Matteo Garrone, ma concorrenti che si presentano come a un colloquio di lavoro, in effetti scopo ultimo del gioco.

Nell'Italia del secondo decennio del 21esimo secolo, dove i nuovi politici si vantano d'essere "gente normale", non i vituperati professionisti, il reality che da tempo si è specializzato - e chiede di saper ballare, cantare, cucinare - si fa nicchia e alza l'asticella. Nel primo dei tre giorni di provini milanesi sfilano davanti alla telecamera studenti di diritto che sanno il cinese, trader, laureati in economia, ventiquattrenni con due lauree e già un lavoro in aziende hitech, manager di grossi colossi tlc che non hanno nulla da perdere a cambiare lavoro e comunque provano, gente che da tempo vive di lavoro flessibile o disposta a lasciare un tempo indeterminato. Se la crisi c'entra non si dice o non lo si fa vedere, del resto un od una aspirante manager che deve farsi scegliere non può certo presentarsi in difficoltà davanti a un boss il cui concorrente tipo deve «masticare il filo spinato», come da trailer. La crisi è qualche momento di commozione, un cauto «non mi sento in pericolo», un ottimistico «fondamentale è sopravvivere al 2013». Molti candidati hanno un genitore piccolo imprenditore o commerciante ma non lavorano con lui, non vogliono lavorare con lui, si son già staccati o vogliono farlo, cercano una loro strada anche se il padre salta fuori, in termini di valori, ricordo romantico, esempio positivo.

Ricorrono le motivazioni "sfida", "esperienza formante", "voglia di crescere, misurarsi e lavorare all'estero", cioè in un resort in Kenya o Turchia di Briatore. Il pubblicitario trentenne Marco, tempo indeterminato ben inserito nel mondo editoriale milanese, sintetizza: «Non mi sarei presentato a un reality tipo Grande Fratello perché si parla di nulla, questo ha contenuti» cioè un lavoro ben pagato, un modo non convenzionale di fare carriera. Tutti sanno lavorare in gruppo, non ce n'è uno che la mattina svegliato da poco non sopporta i suoi simili. Ai candidati per The Apprentice 2014 si chiede un giudizio sui partecipanti dell'anno scorso, le risposte entrano nel merito, mica a simpatia e antipatie come un qualunque svogliato - e a questo punto antico - spettatore che dà il suo meglio dal divano: «Detto fra noi, quello (concorrente I edizione ndr) che manager è se non ha mai preso una decisione?» è l'opinione tipo.

Conseguenza ovvia della mutazione del reality è l'evoluzione dei selezionatori, gli psicologi del Grande Fratello sono ormai preistoria, da quest'anno a The Apprentice licenziati, al loro posto due head hunter, che di solito esaminano personale per le aziende ma in questa veste non avranno l'ultima parola. All'alba del format, davanti a Personaggio, l'autore diceva «evvai, fantastico, prendiamolo»; lo psicologo stoppava «no, è un pazzo». In questa nicchia in evoluzione l'Head Hunter capisce prima e meglio chi ha di fronte, smaschera il curriculum gonfiato, domanda al candidato dimmi un difetto, il tapino risponde «sono testardo», Head Hunter incalza «è la classica risposta di uno che non vuole esporsi, dimmene uno vero», l'interrogato confessa «sono permaloso». Head Hunter lavora in armonia, si ruba a vicenda mestiere e domande, interagisce a meraviglia con Autore Tv. Il cui lavoro in questo contesto è in verità un lavoraccio, altro che l'ingiusto cliché di creativo col naso al soffitto in attesa dell'idea.

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