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Questo articolo è stato pubblicato il 06 luglio 2014 alle ore 08:14.

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In una pagina del suo diario, il 13 novembre 1952, Bernard Berenson scrisse qualche pensiero personale sul suo vecchio discepolo Kenneth Clark. Clark era un homo novus ma, essendo nato come si suol dire con la camicia, non tutti si rendevano conto che era un uomo di incomparabile successo. Aveva avuto subito incarichi di grande prestigio, era ritenuto il miglior conferenziere, critico e storico d'arte del mondo inglese, era sposato ad una donna brillante e bella dalla quale aveva avuto dei figli promettenti. Non solo aveva ereditato una fortuna ragguardevole ma l'aveva sempre accresciuta comprando e vendendo opere d'arte, ma essendo molto facoltoso, queste operazioni erano considerate come il giusto desiderio di un collezionista di assicurarsi sempre opere di migliore qualità. Berenson finiva, parlando anche di sé, con una constatazione piuttosto amara: poiché era nato povero, qualunque quadro avesse comprato o venduto veniva inteso come la manifestazione della sua indole mercantile. La vita era così solo questione di denaro? Berenson stimava molto il suo allievo e forse gli era affezionato nonostante, lo si capisce, non gli restasse del tutto simpatico.
Non lo fu nemmeno a me quando lo incontrai diverse volte all'inizio degli anni Sessanta. Il rapporto era del tutto diverso: Berenson avrebbe potuto essere il padre di Clark e Clark aveva la stessa età di mio padre. Non era dunque un fatto generazionale a provocare qualche tensione ma piuttosto l'atteggiamento di Clark verso gli altri. Ciò non aveva nulla a che fare con la sua intelligenza né tanto meno con le sue doti intellettuali: le idee di Clark erano sottili e venivano espresse – sia parlando che, ancor meglio, scrivendo – in un linguaggio traslucido quanto elegante. L'uomo era ben fatto, piuttosto alto, di lineamenti regolari ma con un'espressione remota e uno sguardo non incoraggiante. Vestiva in modo impeccabile, aveva studiato a Oxford, era stato direttore della National Gallery nel 1936 quando aveva l'età di Cristo; venne presto nominato Sir e poi Lord Clark of Saltwood, ed era stato autore dei migliori studi sui disegni di Leonardo, investigatore intelligente di Piero della Francesca e del Rinascimento italiano in generale ma anche del Gothic Revival e di artisti di tutt'altro genere ed epoca –un trionfatore, in una parola, che sarebbe potuto diventare Arcivescovo di Canterbury e forse Vicerè dell'India. Insomma dava l'impressione di essere very pleased with himself. Evidentemente il vago malessere che Clark lasciava negli altri non colpì solo Berenson: pochi storici dell'arte sono stati così ossequiati ma anche così poco amati come lui.
È però buona regola, ad un certo punto della vita, mettere in discussione le proprie simpatie e i propri gusti e così devo ammettere di avere cambiato idea su quel personaggio elusivo in tempi recenti. Non così recenti a dire il vero. Rividi Clark molti anni dopo averlo conosciuto più o meno bene a Firenze: eravamo ormai verso gli anni Ottanta, e a Parigi. Si avvicinava la fine della sua vita e non era mai stato così famoso né così ricco né così distinto ma era diventato quasi fraterno. Si era risposato in tarda età e la donna che lo accompagnava negli ultimi anni era meno singolare della prima Lady Clark ma forse più graziosamente affabile – comunque non sono questi gli aggettivi adeguati per definirla.
Da circa un mese si tiene alla Tate Britain una mostra dedicata a Clark. È un'esposizione molto attenta in cui si presentano con quell'imparzialità e quel distacco tipico dell'Inghilterra i vari aspetti di quello che è stato il più famoso (ma non sempre il più originale) critico d'arte inglese della sua epoca. La mostra (nella quale si presenta una scelta degli oggetti e dei dipinti da lui raccolti) viene divisa in sei sezioni che esaminano la sua carriera professionale, la sua attività come mecenate e collezionista, i suoi interventi nella vita del paese durante la seconda guerra mondiale, il suo ruolo pionieristico alla televisione e il fastoso castello, mirabilmente ammobiliato, in cui finì la sua esistenza. L'uomo faceva parte, lo si sarà già inteso, dell'Upper Class britannica ciò che forse lo portò a considerare l'arte «inguaribilmente aristocratica». Il suo linguaggio personale doveva molto a quelle brevi frasi taglienti che facevano parte della conversazione del gran mondo anglosassone, eredità di un Oscar Wilde rivisto e corretto. Nel caso di Clark ciò si dovette anche allo spirito arguto e talvolta crudele di Berenson il quale, com'è risaputo, aveva conosciuto assai bene Wilde nella sua remota gioventù. Questo aspetto della sua personalità lo rendeva l'esponente ideale della grande divulgazione artistica e infatti egli ha saputo spiegare che cosa sia l'arte, che ruolo abbiano il paesaggio e la natura in un dipinto e quale sia la differenza tra nudo, erotismo e pornografia. Clark sapeva intendere e far intendere le differenze dei toni e delle parole. Basta il titolo di una sua celebre conferenza per capire quel che intendo dire: «What is Good Taste?» E che cosa fosse buon gusto Sir Kenneth lo sapeva indicare assai bene anche perché non ebbe mai dubbio alcuno sulla sua capacità di giudizio, persino nel campo dell'arredamento, delle case e delle persone.
Certamente il suo «buon gusto» non è sempre il nostro – ma non sarei tanto sicuro che il nostro sia meglio del suo. Se si esaminano le opere che ha raccolto, alcune delle quali come dicevo sono state convocate alla Tate, c'è poco da discutere: vari Cézanne di primissimo ordine, un Delacroix molto romantico, un minuscolo ma squisito Raffaello, un disegno probabilmente di Michelangelo, due struggenti Seurat…la lista è impressionante e include lavori atipici per il gusto dell'epoca come una piccola ma commovente natura morta di Zurbarán, una testa romana nella più dura pietra conosciuta, la grovacca, detta erroneamente basalto, e un disegno di Giovanni da Udine montato da Giorgio Vasari. Molti ai tempi suoi acquistarono opere inglesi del Settecento ma il ritratto femminile di Reynolds da lui posseduto ha l'incanto di un'opera non finita in cui il pittore ha studiato con attenzione sia il volto vagamente irrequieto della protagonista sia il gioiello che indossava – il fondo è lasciato vergine o quasi. Clark era anche in grado di spendere molti denari per un'opera importante come fece per una famosa veduta di Turner: verso la fine della vita o poco dopo la sua morte la tela venne venduta per una cifra ancora più alta. Il suo capolavoro di Renoir, La baigneuse blonde, del 1882, gli piaceva immensamente al punto di farsi ritrarre (Narciso dinanzi ad Eva) davanti a quest'opera particolarmente sensuale. La vendette comunque con un immenso guadagno per poi rimpiangerla sempre – oggi si trova nella Pinacoteca di Giovanni e Marella Agnelli a Torino.

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