Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 06 luglio 2014 alle ore 08:13.

My24

L'uscita dalla scena politica del principe Klemens von Metternich avvenne il 13 marzo 1848. La fiammata rivoluzionaria, che stava attraversando l'Europa, da Parigi era giunta a Vienna. La folla aveva invaso le strade della capitale dell'impero asburgico, erano stati occupati posti di polizia e abbattute le aquile bicipiti, manipoli di studenti maledicevano il cancelliere intonando strofe irriverenti: «Oh Metternich, oh Metternich/Vorrei che nella tempesta/La terra ti ingoiasse». Quel giorno – era di lunedì – delegazioni di insorti si recarono all'Hofburg per chiedere la liquidazione di Metternich. Il cancelliere, convocato a corte, imperturbabile, in marsina verde scuro, pantaloni grigio chiaro, cravatta di seta nera e un bastone dal pomo d'oro, tentò di convincere l'imperatore e gli arciduchi a far intervenire le forze armate e alzare il livello dello scontro per bloccare la rivoluzione. Fu costretto a rassegnare le dimissioni. Rientrato a palazzo, alla moglie Melanie che gli domandò: «Dunque, siamo proprio morti?», rispose con un sorriso amaro: «Sì, mia cara, siamo morti». Il giorno successivo, al medico personale venuto a visitarlo, disse: «Caro dottore, sarebbe meglio che lei tastasse il polso all'Austria».
Per quasi quarant'anni Metternich aveva retto le redini del governo imperiale. Adesso era diventato il capro espiatorio, la bestia nera del liberalismo e della democrazia, il simbolo della reazione da abbattere. Attorno al suo nome si creò una vera e propria "leggenda nera", che ne ha tramandato un'immagine fosca e impietosa, di uomo retrivo e cinico, abbarbicato a un passato declinante, incapace di cogliere fermenti e istanze di un'epoca in movimento.
Questa "leggenda nera" si sarebbe rivelata dura da scalfire. Metternich lo previde: «tra cento anni gli storici mi comprenderanno meglio». Non passò un secolo, ma quasi. Pochi studiosi – fra questi Albert Sorel che ne parlò come di «un diplomatico di altissimo livello, senza pari nel suo tempo e nel suo tipo» – si mostrarono benevoli nei suoi confronti.
Fu necessario attendere la seconda metà degli anni venti del secolo successivo perché ne fosse rivista l'interpretazione demonizzante propria della storiografia di ispirazione liberale e democratica. Solo nel 1925 apparve infatti la minuziosa biografia dedicatagli da Heinrich von Srbik: un'opera importante che ebbe estimatori anche in Italia, a cominciare da Franco Valsecchi, e che, lungi dallo scadere nell'apologia, si sforzò di comprenderne e spiegarne la politica. Ne emergeva una personalità non grettamente reazionaria né amante di un virtuosismo diplomatico teso a bloccare il cammino della storia, ma preoccupata di ristabilire e conservare l'equilibrio fra gli Stati.
Al lavoro pionieristico di von Srbik rende omaggio anche la più recente e accurata biografia di Metternich dovuta alla penna di un ottimo studioso dell'Ottocento europeo e in particolare dell'età napoleonica, Luigi Mascilli Migliorini. Questi tiene conto dei risultati e delle discussioni della storiografia internazionale e riesce ad offrire al lettore non solo la ricostruzione della biografia, umana e politica, di Metternich ma anche un vivace affresco di storia diplomatica di un periodo nel quale – per usare un'espressione di Henry Kisssinger, anch'egli studioso di Metternich – si manifestò l'anomalia di un conservatore destinato a operare in un'epoca rivoluzionaria, preoccupato di recuperare dal caos politico un nuovo senso del dovere e di sconfiggere la rivoluzione insistendo sulla "legittimità" in nome del "principio di equilibrio".
Non a caso, Mascilli Migliorini sottolinea l'importanza della formazione culturale dello statista austriaco. Metternich fu espressione del suo secolo o, per meglio dire, di quell'ultimo scorcio del Settecento durante il quale la monarchia degli Asburgo aveva raggiunto il massimo splendore. Discendeva da una famiglia di antica nobiltà renana legata alla dinastia imperiale e si era formato nel culto illuministico della ragione. Sostenitore dell'assolutismo illuminato era convinto che in uno Stato sano dovessero trovarsi in equilibrio le forze della stabilità e del movimento, della staticità e del dinamismo, della conservazione e della rivoluzione. L'esigenza della reazione nasceva, per lui, dalla necessità di ristabilire l'equilibrio infranto dal prevalere degli elementi rivoluzionari: «Se sui vostri terreni aveste un grande serbatoio d'acqua che ad ogni momento può inondare i vostri campi, e che, prima o dopo, dovrà scaricarsi, cosa fareste? Rompereste forse le dighe per far irrompere un torrente d'acqua? O non piuttosto pratichereste con prudenza delle aperture in modo che l'acqua scorra tranquilla, e apporti, invece della distruzione, il benessere?». Nella rivoluzione egli non vedeva solo un pericolo per il regime politico verso il quale si indirizzavano le sue simpatie, ma anche, e soprattutto, una minaccia per una concezione di vita, che, alla luce delle categorie mutuate dal razionalismo illuministico, gli appariva migliore.
Il suo motto preferito era: «la forza nel diritto». Tuttavia egli non poteva apprezzare il ristabilimento dell'ordine operato da Napoleone dopo il ciclone rivoluzionario che aveva investito la Francia, abbattuto la monarchia, portato all'esecuzione dei sovrani e al Terrore: non era, infatti, quello di Napoleone, l'ordine legittimo, l'ordine dell'antico regime, ma un ordine nuovo che collegava la sovranità alla dittatura. Di Napoleone ebbe una pessima impressione quando, nominato ambasciatore a Parigi, gli presentò le credenziali. Bonaparte lo accolse in piedi, nel mezzo del salone delle udienze di Saint-Cloud, circondato dai dignitari della corte, indossando l'uniforme delle guardie e tenendo in testa il cappello: per un uomo come Metternich, elegante fino al limite dello snobismo e attento all'etichetta, questa fu una sconvenienza imperdonabile, rivelatrice del parvenu. Col tempo il suo giudizio non mutò ed egli non ne fece mistero annotando: «la sua figura bassa e tarchiata, il suo modo di vestire trascurato e, insieme, il suo sforzo di apparire imponente, finirono con l'attenuare molto, per me, quella sensazione di grandezza, che necessariamente si provava dinanzi all'uomo che faceva tremare il mondo». Del resto, come avrebbe mai potuto, questo aristocratico raffinato, giudicare con indulgenza un Napoleone che, il giorno delle nozze con Maria Luisa d'Austria, attese fremente d'impazienza la novella sposa nel cortile del castello di Compiègne, l'aiutò a scendere dalla carrozza, l'accompagnò in sala da pranzo, ma, dopo la prima portata, la condusse, lasciando tutti gli ospiti, in camera da letto per consumare il matrimonio?

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi