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Questo articolo è stato pubblicato il 14 luglio 2014 alle ore 19:02.
L'ultima modifica è del 17 luglio 2014 alle ore 15:18.

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(Ap)(Ap)

Riportiamo l'intervista a Nadine Gordimer pubblicata sul Sole24 Ore il 7 febbraio 2010.

La strada che dall'aeroporto porta a Johannesburg è sventrata dai lavori per gli imminenti mondiali di calcio. Presto fioccheranno i giornalisti stranieri col loro carico di cliché e la smania di fare bilanci, si schermiscono i commentatori dei quotidiani locali. L'11 febbraio saranno passati vent'anni da quando Mandela è tornato un uomo libero. Quindici anni dall'insediamento del primo esecutivo eletto da tutti i sudafricani, bianchi e neri, quasi quindici anni dalla coppa del mondo di rugby che, davanti alle telecamere di tutto il mondo, sancì la vittoria arcobaleno delle locali Springboks e del neoletto presidente Mandela. Da allora il partito al governo è sempre stato l'ANC, l'African National Congress.

Vicino all'università, superata una torre circondata da un enorme pallone che ha visto tempi migliori, il taxi si ferma in un quartiere di ville sprofondate in alti giardini: Parktown West. Sono davanti alla casa di un'anziana donna bianca, Nadine Gordimer, vate e vestale del moderno Sudafrica. Con la sua prosa epica ha raccontato la lotta all'apartheid e la difficile costruzione di un nuovo paese; con il suo impegno politico ha dato voce a chi non ne aveva. "La sua scrittura magnifica è stata di grande beneficio per tutta l'umanità" scrisse il comitato dei Nobel quando le assegnò quello per la letteratura nel 1991, due anni prima che il suo amico e compagno di partito, Nelson Mandela, vincesse quello per la pace.

Non c'e' campanello. Arriva un uomo giovane, seguito da un superbo cane fulvo. All'interno di una casa bianca, semplice ed elegante, mi accoglie una donna minuta dallo sguardo fermo, che non può avere 87 anni. La guardo bene: massimo 67. Eppure è lei. Sua figlia vive in Italia, insegna inglese in una scuola di Mondovì, racconta davanti a un panettone.

A cosa sta lavorando ?
Non ne parlo mai prima di aver terminato.

Ma sta scrivendo?
Yes, indeed. Neppure a mio marito raccontavo quello che facevo, non mi sono mai confrontata con lui. E a volte servono due anni per finire un romanzo. Lui era la prima persona che lo leggeva. Ma ha sempre rispettato il fatto che la scrittura fosse qualcosa di completamente privato, anche all'interno della nostra relazione.

Lei ha sempre mantenuto separate le sue dichiarazioni politiche dalla sua narrativa.
Sono due cose completamente separate. Come essere umano, come cittadina del mio paese, sono stata ovviamente coinvolta in modo assoluto in tutto quel che avveniva intorno a me, che è stato cosi significativo dal punto di vista politico. Non era possibile avere una vita privata. Non so proprio come sarebbe stato possibile averla: avrebbe voluto dire non essere in contatto con la realtà! Vivere durante il periodo dell'apartheid, che piaccia o no essere in politica - e a me non piaceva - mi ha fatto vedere le idee politiche, le convinzioni politiche, come parte della mia vita, proprio come alcune persone vedono la religione come parte della loro. Io sono atea, ma penso che certe convinzioni, morali o di altro tipo, impongano una direzione alla vita. E ovviamente per me, nella condizione di conflitto in cui ero nata, essendo parte di una società che opprimeva gran parte della popolazione, era naturale considerami coinvolta in quel che accadeva. Non avrebbe potuto essere diversamente. Durante l'infanzia io ero completamente circondata dall'enclave bianca. I miei genitori non si mescolavano con nessuno che non fosse bianco, come gran parte degli altri sudafricani bianchi. Ma non appena ho cominciato a vedere che c'era qualcosa di molto strano e sbagliato in tutto questo, è iniziata la mia "educazione politica". Da giovane sono andata a Johannesburg, facevo avanti e indietro con il piccolo paese dove ero cresciuta. E presto ho avuto il mio primo amico nero.

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