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Questo articolo è stato pubblicato il 27 luglio 2014 alle ore 08:14.
L'ultima modifica è del 27 luglio 2014 alle ore 13:50.

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A Besançon, 150 anni fa – e precisamente il 5 ottobre 1864 – nasceva Louis-Jean Lumière. Questa data ci offre la possibilità di proporre una riflessione religiosa molto libera. Infatti, come è noto, una trentina d'anni dopo, nel 1895 Louis-Jean e suo fratello Auguste facevano scorrere per la prima volta su uno schermo bianco alcune immagini in movimento dando origine a quella che sarebbe stata pomposamente chiamata "la settima arte", la cinematografia. Pochi sanno, però, che alcuni mesi dopo, il 26 febbraio 1896, un operatore, Vittorio Calcina, a nome dei fratelli Lumière aveva ottenuto il permesso di varcare le soglie del Palazzo Apostolico romano con le sue apparecchiature destinate a filmare il papa Leone XIII nell'atto di benedire, mentre poco tempo dopo, un collaboratore di Edison aveva potuto riprendere lo stesso vecchio pontefice mentre passeggiava nei giardini vaticani, a beneficio dei fedeli americani desiderosi di vedere il papa "di persona".
Anzi, nel 1897, sul candido lenzuolo che allora fungeva da schermo passava la prima trascrizione in immagini mobili de La passion di Albert K. Léhar, un'esperienza che nel 1899 ripeterà un più noto regista, Georges Méliès, col film cristologico Le Christ marchant sur les eaux al quale si aggiungerà una Jeanne d'Arc. Da quei momenti iniziali si snoderà un itinerario che attraverserà tutto il Novecento e tutte le nazioni del mondo e approderà alle incessanti produzioni filmiche, alle variazioni di genere introdotte dalla televisione, alle voragini abissali nel nadir delle perversioni, delle violenze, della pornografia, ma anche allo zenit dei capolavori di umanità e spiritualità, alle esaltazioni dei colossal fino alle inedite creazioni digitali attuali, alla valanga della retorica di certi film "biblici" e agiografici, al moltiplicarsi incessante dei festival e così via.
Non è possibile né è nostro compito ora ricostruire questa storia, sia pure soffermandoci solo sulla filmografia che coinvolge la fede. Ci accontenteremo, allora, di elaborare una sorta di minima teologia del cinema in sé considerato. Ebbene, la sua matrice strutturale si lega sostanzialmente a due categorie fondamentali anche nella teologia, l'immagine e la parola, colte nella loro dinamicità ed efficacia. Alla giusta reticenza aniconica del Decalogo anticotestamentario che proibisce ogni rappresentazione di «ciò che è nel cielo, sulla terra e nelle acque sotto terra» (Esodo 20,4) per liberare il Dio-persona da ogni forma oggettuale idolatrica, subentra la svolta neotestamentaria. Nelle Scritture cristiane e nella tradizione successiva la domanda di fondo sulla rappresentabilità del sacro è subito evasa in senso favorevole, non solo perché il linguaggio teologico è di sua natura simbolico e analogico – come per altro aveva già intuito il libro biblico della Sapienza, convinto che «dalla bellezza e magnificenza delle creature analógôs (PER ANALOGIA) si può ascendere al loro Autore» (13,5) – ma anche perché il cristianesimo ha nel suo cuore l'Incarnazione che vede nel volto umano di Gesù di Nazaret una eikôn, un'icona, «un'immagine del Dio invisibile», come scriveva san Paolo ai Colossesi (1,15).
In questa linea si illumina anche la scelta iconica della Chiesa che si opporrà con forza all'iconoclasmo nel Secondo Concilio di Nicea (787), generando e sostenendo quello straordinario patrimonio artistico che avrà il suo approdo necessario anche nella stessa cinematografia. Non è secondario, poi, il fatto che i due linguaggi, il filmico e il religioso, sono di loro natura performativi. Pur con tutte le distanze e le differenze del caso, la "sacramentalità" dell'atto liturgico che attua realmente nel fedele la salvezza ha un'analogia nell'efficacia dell'"azione" cinematografica che cerca di "attuare" nello spettatore ciò che rappresenta. Ci sono, infatti, nei film di autentica qualità artistica e spirituale alcune suggestioni irrevocabili che, dopo il congedo dallo spettacolo, continuano a vivere nell'interiorità e nella stessa esistenza dello spettatore.
L'altra componente che intreccia fede e film è la parola. Naturalmente non intendiamo solo il sostegno che il dialogo offre alla rappresentazione, ma il racconto visivo. Ora, si comprende che la Bibbia sia divenuta un soggetto appetibile dal cinema perché è di sua natura "storia della salvezza" e quindi narrazione. È suggestivo un aforisma giudaico che afferma: «Dio ha creato gli uomini perché Egli – benedetto sia – ama i racconti». Ci sono, così, pagine bibliche che sembrano già un soggetto cinematografico, come nel caso delle 35 principali parabole di Gesù. Altri testi si presentano quasi come una sceneggiatura pronta per le riprese: si provi a leggere, ad esempio, il celebre racconto dell'adulterio di Davide e dell'assassinio di Urìa presente nei cc. 11-12 del Secondo Libro di Samuele. In questa luce si sono sviluppati alcuni capolavori come il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964) ma anche una valanga di colossal di grande impegno finanziario e tecnico ma di modesta qualità religiosa.
Pensiamo alla Più grande storia mai raccontata di George Stevens (1965), al Grande Pescatore di Frank Borzage (1959) o al Re dei re di Cecil de Mille (1927; remake di Nicholas Ray nel 1961) che, però, ebbe anche il merito di aver diretto un più significativo film divenuto un "classico" della cinematografia biblica, I dieci comandamenti (1956). Non si badava a spese e ad effetti, ma alla fine si otteneva un'iconografia enfatica e solo esteriormente religiosa, anzi, in alcuni casi destinata a rasentare il sadismo, come nell'esagitata Passione di Cristo (2003) di Mel Gibson (90 minuti di torture su 126 di film!). Né si deve escludere le non rare provocazioni blasfeme che attingevano la loro capacità di scandalo proprio nell'uso improprio del testo sacro (L'ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese del 1998, in verità meno negativa di quanto sembrasse, divenne al riguardo un emblema).

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