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Questo articolo è stato pubblicato il 10 agosto 2014 alle ore 08:13.
L'ultima modifica è del 10 agosto 2014 alle ore 13:57.

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Il Trattato di Eugen Bleuler, la cui prima edizione risale al 1916, è uno dei primi libri che, studente di psichiatria, i miei professori mi hanno messo in mano. Sono passati trent'anni e li ringrazio. «Quando il medico è posto di fronte al grande compito di aiutare una persona affetta da disturbi psichici – scrive Bleuler – si aprono davanti a lui due strade. In primo luogo, può registrare di cosa è malato. In base ai sintomi concluderà per uno dei tanti scenari di malattia che sono stati descritti. Saprà quindi quali metodi di trattamento sono disponibili e li selezionerà e applicherà in base alle esigenze del suo paziente. Può tuttavia intraprendere anche una strada diversa. Può cioè ascoltare il paziente come un amico fidato. In questo caso la sua attenzione sarà meno orientata a classificare il malato (...) quanto piuttosto a cogliere la persona nella sua unicità e a immedesimarsi nelle sue necessità personali, nelle sue angosce, nei suoi desideri e nelle sue aspettative. (...) Entrambe le procedure sono necessarie». È così. Il buon diagnosta vive nella e della tensione tra il valore sintetico dell'etichetta e la specificità individuale del caso, l'aspetto nomotetico e quello idiografico della diagnosi. Karl Jaspers, che proprio in quegli anni pubblicava la Psicopatologia Generale, ci ricorda che ogni schema diagnostico deve rappresentare «un tormento per il ricercatore». Più che uno schema, quello di Bleuler è un tentativo imponente di sistematizzare l'intero sapere psichiatrico. Inevitabilmente sostenuto, come tutte le grandi nosografie, Dsm compresi, da ossessività e onnipotenza (due caratteristiche che, ben dosate, possono dare grandi frutti). Come ogni trattato di psichiatria dell'epoca, contiene illustrazioni di ogni sorta: «Bambino cerebroleso che fa rimbalzare una pallina»; «Incremento accentuato di lipoidi nelle cellule gangliari in un caso di demenza senile»; «Cretina in preda a stati eccitativi»; «Grafia di un delirante»; «Schizofrenica in preda a vive allucinazioni».
La "mia" edizione apparteneva alla gloriosa «Biblioteca di Psichiatria e di Psicologia Clinica» diretta da Galli e Benedetti (che tradusse, tra gli altri, Balint, Binswanger, Minkowsky, Sullivan). Peccato che Feltrinelli l'abbia lasciata morire. La traduzione era di Mainoldi sulla decima edizione riveduta e ampliata dal figlio di Eugen Bleuler, Manfred, anch'egli psichiatra, aggiornatore infaticabile dell'impresa paterna. Oggi La Scuola Editrice propone, a cura di Francesco e Guido Ghia (già curatori, per lo stesso editore, di un saggio "minore" di Bleuler, La psicoanalisi di Freud), la quindicesima edizione, stabilita nel 1982 sempre da Manfred.
Dopo la laurea in medicina nel 1881, un breve periodo di studi all'estero (a Parigi è allievo di Charcot), la gavetta a Rheinau su un'isola del Reno più o meno abbandonata dove riorganizza un fatiscente ospedale psichiatrico ricavato da un vecchio monastero, Bleuler ritorna alla clinica psichiatrica dell'Università di Zurigo, il Burghölzli, di cui diventa direttore nel 1898, succedendo ad Auguste Forel (noto anche per il ritratto che gli fece Kokoschka). Per trent'anni dirige la clinica, affiancato da allievi come Jung, Abraham, Binswanger, Rorschach. Nel 1911 pubblica Dementia Praecox o il gruppo delle schizofrenie (tradotto in italiano dalla Nis, ma oggi temo non più disponibile; contiamo sul "progetto Bleuler" dell'Editrice La Scuola) e nel 1916, come ormai sapete, il Trattato di psichiatria.
La fama di Eugen Bleuler è legata all'introduzione di termini che hanno segnato in modo definitivo lo studio della psicopatologia: «schizofrenia», «schizoide», «autismo», «ambivalenza». A differenza di un altro grande ordinatore, il coetaneo tedesco Emil Kraepelin, che fonda la sua diagnostica sulla descrizione, la matrice biologica e il decorso delle malattie, Bleuler propone una visione organico-dinamica della malattia mentale che non esclude la possibilità di "capire" il significato dei sintomi. Non a caso è di sua invenzione l'espressione Tiefenpsychologie, «psicologia del profondo», anche se poi i suoi rapporti con la psicoanalisi furono tutt'altro che sereni, fino al distacco nel 1913 con la Kritik der Freudschen Theorie. Il termine bleuleriano «ambivalenza» descrive sì un sintomo primario della schizofrenia, ma noi possiamo scomodarlo anche per riferirci alla tensione del suo inventore tra posizioni poco conciliabili, per esempio tra Wundt e Freud. Sulle complessità bleuleriane, la rivista «Schizophrenia Bullettin», nel 2011, in occasione del centenario di Dementia Praecox o il gruppo delle schizofrenie, dedica articoli che consiglio (volume 37, n. 3 e 6).
La letteratura psichiatrica ha più volte sottolineato la contrapposizione tra gli approcci di Bleuler e Kraepelin. Quello dello psichiatra svizzero ha influenzato i primi due Dsm, mentre quello del tedesco ha decisamente ispirato il Dsm-3 e il 4. Al punto da spingere un gruppo di psichiatri americani che, diversamente da Bleuler, enfatizzavano la specificità dei sintomi psicotici nella diagnosi di schizofrenia, ad autodefinirsi neo-kraepeliniani. Meno inclusivi di Bleuler, essi vedevano i disturbi mentali come entità discrete e discontinue rispetto alla normalità, e il loro interesse per la psichiatria era esclusivamente descrittivo e biologico. Eppure la kreaepeliniana dementia praecox, una diagnosi che, se ci fate caso, contiene la prognosi, ha lasciato il posto al bleuleriano schizofrenia, che indica nella scissione (Spaltung), nella mancata integrazione delle funzioni psichiche, la caratteristica principale del pensiero schizofrenico. Grande merito di Bleuler è stato sottrarre i «dementi precoci» a una profezia diagnostica che si autoavvera. Oggi i clinici della schizofrenia, come Farkas o Goscha, usano il termine recovery. Può essere tradotto con «guarigione», ma con una sfumatura diversa e fondamentale: può infatti non implicare necessariamente la guarigione clinica per come è definita da criteri operazionalizzati, bensì una condizione soggettiva di sostanziale ripresa e reinserimento sociale, nonostante la persistenza di sintomi e disabilità.

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