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Questo articolo è stato pubblicato il 17 agosto 2014 alle ore 08:13.

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In Il filosofo Daniel D. Dennett ammonisce che non si possono «capire i fenomeni della coscienza prima di sapere che cosa ha scoperto la scienza al riguardo negli ultimi anni. Le teorie da tavolino dei filosofi che ignorano questa morale nella migliore delle ipotesi sono trascurabili e più spesso profondamente confuse e confondenti». Nel capitolo centrale sulla coscienza Dennett, in questo libro, non considera la concezione del funzionamento dei meccanismi cognitivi della Global Work Space Theory, che da anni è terreno comune dei centri leader della ricerca, e grazie alla quale si fanno progressi rilevanti. Nel 1991 pubblicò La coscienza cos'è (Consciousness explained), ignorando che i dati della scienza, almeno per ora, escludono che la coscienza si possa spiegare. I molti suoi libri successivi sul tema non sono diversi: dopo averli letti, spesso con qualche fatica, della coscienza se ne sa quanto prima. Ovvero, si sa ciò che della coscienza indagano, con alterne fortuna e sagacia, le neuroscienze cognitive. Dennett, simpaticamente, confessa di avere «una grande esperienza in materia di errori» e spera «di farne ancora molti» purché «utili».
Con questo nuovo libro potrebbe aver centrato lo scopo. Esso è uno Zibaldone di divagazioni, aneddoti, riflessioni (interessante quella sulla psicologia popolare e pregevoli i capitoli sull'evoluzione), banalità, bizzarrie (come gli arzigògoli sulla differenza fra l'ontologia di una margherita e la nostra umana, sul cervello semantico e quello sintattico, su Shakespeare rifatto da Frankenstein che scrive Spamleto eccetera eccetera) e (si dice in Romagna) di robe da chiodi come, ad esempio, l'impossibilità di capire la natura della coscienza considerata non come limite della mente che si indaga ma come «un pio desiderio»: di chi e perché? Mistero. Dennett racconta che «alcuni degli scienziati miei amici e colleghi confessano di non poter assolutamente capire perché non abbandono la navedella filosofiae non mi unisco a loro».
Egli, da anni, sostiene che la filosofia senza scienza è un vaniloquio, e qui ribadisce che dagli scienziati riceve «una ricca razione di fatti affascinanti e problematici», ma che preferisce rimanere filosofo per riflettere «su tutte le teorie e gli esperimentisenza mai dover lavare i piatti», cioè senza affaticarsi in esperimenti e ricerche. Così «alcuni filosofi» sarebbero in grado di avanzare «proposte utili per chiarire e promuovere la ricerca scientifica, e per elaborare modi migliori di spiegare i risultati al pubblico non scientifico».
Gli scritti di Dennett sono, di regola, più «oscuri e ravvolti» (per usare parole di B. Croce) delle descrizioni neuroscientifiche degli eventi della coscienza. Circa le «proposte utili» alla ricerca scientifica da parte della filosofia della mente, non ne rammenta una che sia diventata oggetto di ricerca con dati rilevanti. «Sappiamo a che cosa serve il cervello», scrive, «ma ora dobbiamo riuscire a capire come fa ciò che fa», senza considerare che chi sa e che deve capire altro non è che il cervello stesso, ignorando l'aspetto problematico delle neuroscienze cognitive, cioè l'autoreferenzialità dei meccanismi cognitivi. Dennett tratta l'autoconoscenza della coscienza e i suoi limiti come problema filosofico e non come dato corroborato della scienza già a partire da metà dell'800. La scienza, ad esempio, segue lo stimolo della lunghezza d'onda elettromagnetica del colore rosso, proveniente dagli occhi, nel tragitto delle elaborazioni elettrochimiche fino alla corteccia prefrontale, arrivato alla quale uno scoppio di attività elettrica segnala che esso è diventato cosciente, a scapito di altri stimoli che, pur presenti nei meccanismi della coscienza, rimangono incoscienti: quel passaggio rimane oscuro, indecifrabile. Si provi, diceva il filosofo Wittgenstein, a spiegare a chi non l'ha mai provato che cos'è il dolore fisico. Oppure che cos'è il rosso, il bello e il brutto, la gioia e la tristezza, l'amore e l'odio, la riconoscenza e la gelosia e altri contenuti della coscienza. Non è possibile. Ad ogni contenuto della coscienza corrisponde l'attività di aree della corteccia cerebrale, ma che cosa distingua il ricordo di una musica di Mahler da quella di Modugno o di un'elaborazione matematica non è possibile dire. Diversa è l'attività registrabile dalle aree prefrontali in caso di ragionamento deduttivo o induttivo, ma il suo contenuto è indecifrabile. Da questo aspetto della ricerca, ben presente agli scienziati, occorre partire per ragionare sui limiti della conoscenza, e non da pagine e pagine di divagazioni su zombi e zimbi (variante escogitata da Dennett), su realtà virtuali, su vite in capsule hi-tech, sulla sindrome di Capgras (una malattia cerebrale sui cui c'è poco da strologare), sul dilemma se un corpo può avere più di due sé, e avanti con la fantasia che non porta a nulla.
Dennett dice bene che per capire la coscienza non è necessario creare una scienza alternativa radicale o rivoluzionaria e sostiene che «esiste un ampliamento della scienza oggettiva che copre bene tutto il campo della coscienza umana senza mai obbligare ad abbandonare le regole e i vincoli dei metodi sperimentali». Egli sostiene che la conoscenza della natura della coscienza è questione di aumento delle conoscenze, e porta i soliti esempi del magnetismo e del vitalismo, chiariti dopo secoli d'incertezza. Nell'ambito della coscienza il limite della conoscenza è dovuto all'autoreferenzialità dei meccanismi cognitivi del cervello che studiano se stessi, una condizione che non si vede come si possa superare. Un grande fisico, che di scienza se ne intendeva, ha ammonito che più cresce l'isola della conoscenza più s'allungano le coste dell'ignoranza. Non solo Newton, ma illustri colleghi di Dennett come Francis Bacon e David Hume hanno percepito che la natura è infinitamente più complicata della mente che la studia.

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