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Questo articolo è stato pubblicato il 07 settembre 2014 alle ore 08:15.

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e Gennaro Sangiuliano
È stata Anne Applebaum, in un commento pubblicato sul «Washington Post» nel settembre 2013 e intitolato Angela Merkel, the empress of Europe (Angela Merkel, l'imperatrice d'Europa), a usare l'espressione "Fourt Reich" (Quarto Reich): definizione da brivido, probabilmente esagerata, ma che potrebbe riassumere i sentimenti di molti cittadini europei di fronte a una crisi. La locuzione si è talmente diffusa che compare persino come voce dell'enciclopedia online Wikipedia, dove si legge che «il termine "Quarto Reich" si riferisce alla possibilità di un'ascesa e ritorno al potere in Germania e in Europa» del nazionalsocialismo. Anni fa, nel 1966, l'espressione fu adoperata quando l'esponente cristiano-democratico Kurt Georg Kiesinger, con un passato di militante nel Partito nazionalsocialista, venne eletto cancelliere. Il 31 ottobre 1989 il prestigioso quotidiano «Times» di Londra, a proposito della riunificazione tedesca, titolò Beware, the Reich is reviving.
Per oltre un secolo, da quando alla fine dell'Ottocento conseguì con Bismarck l'unità statale e politica, la Germania ha coltivato una volontà di egemonia nei confronti dell'Europa. Un progetto geopolitico che si è tradotto in due sanguinose guerre, la Prima guerra mondiale condotta dall'esercito imperiale del kaiser e la Seconda, tragica e atroce, scatenata da Hitler.
Quando il problema tedesco sembrava definitivamente superato dalla storia, anche grazie alla costruzione unitaria europea esso riappare all'orizzonte. Quell'egemonia che la Germania non è riuscita a conquistare con le armi belliche sembra essere stata "pacificamente" conseguita con l'arma economica. L'era della moneta unica europea, infatti, è diventata l'epoca della grande egemonia tedesca, dove Berlino prospera e gli altri popoli europei soffrono una recessione senza precedenti. Angelo Bolaffi, filosofo e germanista, ha scritto: «Alla base del risentimento antitedesco che circola oggi in Europa non ci sono più, dunque, (solo) le colpe storiche del passato, ma piuttosto le scelte del presente: la Germania, forte della sua forza, pretende – così pensa un diffuso senso comune – di trasformare la propria ossessione per il rigore finanziario e la stabilità monetaria nella Costituzione materiale dell'Europa, minacciandone in tal modo gli equilibri economici, le conquiste sociali e persino il funzionamento dei sistemi democratici».
Quasi settant'anni fa la Germania usciva da una guerra disastrosa, ridotta in macerie materiali e soprattutto morali, con la responsabilità e l'onta del crimine più grave contro l'umanità, la Shoah. Ora, come ha osservato il sociologo Ulrich Beck, apprezzato docente alla London School of Economics, «si è trasformata da docile scolaretta in maestra dell'Europa».
L'Unione europea nacque, nel pensiero e negli intendimenti di chi la volle, per evitare, dopo due sanguinose guerre, che l'Europa potesse tornare a essere terreno di fratture e di egemonie, che potesse ripetersi una "guerra civile europea". Oggi, invece, l'Europa è percepita come una minaccia alla stabilità economica e sociale di milioni di cittadini del Vecchio Continente. E la Germania, a torto o a ragione, viene identificata con le politiche rigoriste, con l'astrattismo formale e il deficit di democrazia che questa Europa ha espresso. L'Unione appare costruita secondo il modello sociale ed economico del Nord Europa, senza considerare le peculiarità e le caratteristiche storiche dei popoli latini.
Lo storico francese Emmanuel Todd ha affermato che la «Germania ha un genio particolare di smarrirsi nei propri errori e tende a una ostinazione irrazionale». Dopo la caduta del Muro, quando l'allora cancelliere Helmut Kohl cominciò a lavorare alacremente per la riunificazione delle due Germanie, non furono pochi i capi di governo a esprimere perplessità in merito. L'opposizione più manifesta fu quella del leader conservatore britannico Margaret Thatcher, già campione dell'euroscetticismo, che ripeteva che la Germania è «per natura più una forza destabilizzante che un fattore di stabilizzazione». L'affermazione coglieva un sentimento diffuso fra gli inglesi, al punto che l'allora ministro Nicholas Ridley giunse a dichiarare, in maniera decisamente eccessiva, che «tanto valeva allora, senza troppi giri di parole, consegnare tutto nelle mani di Adolf Hitler».
In termini più moderati, anche l'allora presidente della Repubblica francese, François Mitterrand, e il premier italiano, Giulio Andreotti, temevano, non sbagliando, che la riunificazione avrebbe significato uno spostamento dell'equilibrio europeo. Diviso tra l'alleanza democristiana con Kohl e i timori della politica estera italiana, Andreotti affermò che «l'esistenza di una sola nazione in due Stati è un dato di fatto, una realtà che non è in contestazione. Altra cosa sarebbe immaginare gli sviluppi futuri della storia». Qualche anno prima, partecipando a un dibattito al festival dell'Unità, Andreotti aveva ripetuto – destando non poco imbarazzo – una celebre frase di François Mauriac: «Amo tanto la Germania che preferisco averne due».
Il 3 ottobre 1990 avvenne quello che per decenni era parso impossibile e una Germania giustamente in festa celebrò l'agognata riunificazione. Da un punto di vista morale, la Repubblica federale, che aveva avuto come capitale Bonn, ne aveva sempre coltivato la segreta speranza.
Non è un caso se essa non riconobbe mai la Ddr (la Repubblica democratica) e neanche gli Stati che l'avevano a loro volta riconosciuta, secondo quella che fu chiamata "dottrina Hallstein", dal nome del sottosegretario agli Esteri Walter Hallstein che la elaborò e applicò tra il 1957 e il 1971. Il confine delle due Germanie era stato a lungo il fronte della guerra fredda, e solo negli anni Settanta, durante la stagione del cancelliere Willy Brandt, i rapporti fra i due Stati tedeschi si erano un po' normalizzati, anche se mai distesi del tutto, attraverso una serie di accordi bilaterali. Al momento dell'unificazione i Länder dell'Est erano in condizioni di abissale arretratezza rispetto a quelli occidentali.

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