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Questo articolo è stato pubblicato il 21 settembre 2014 alle ore 08:15.

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Nel 2004, un paio d'anni prima di morire nell'amata Firenze, la scrittrice scozzese Muriel Spark pubblicò un romanzo intitolato semplicemente Invidia (imitato due anni dopo da un omonimo testo di Alain Elkann). In quelle poche pagine l'autrice ci conduceva nella grotta tenebrosa dell'anima ove questo, che è il penultimo dei sette vizi capitali, si rifugia non solo per secernere tutto il suo veleno ma anche per autoflagellarsi. Infatti, paradossalmente nessuno come l'invidioso o il geloso soffre e si tortura nella sua detestazione dell'altro. Aveva, perciò, ragione il sapiente del libro biblico dei Proverbi quando definiva «l'invidia come carie delle ossa», o Cervantes che la classificava nel Don Chisciotte come «un verme roditore, radice di mali infiniti», mentre Shakespeare la vedeva simile a «un mostro dagli occhi verdi». È, perciò, naturale che questo vizio appartenga alla letteratura morale sia classica sia cristiana, a partire dalle stesse Scritture Sacre (chi non ricorda la gelosia accecante di Saul nei confronti di Davide?), per giungere ai Padri della Chiesa, prima di approdare a un'immensa tipologia letteraria (per tutti pensiamo a Dante e al suo secondo girone del Purgatorio dedicato proprio agli invidiosi o all'invincibile gelosia dell'Otello shakesperiano e verdiano). Ebbene, uno studioso di patristica, Lucio Coco, ha estratto da questo mare letterario un piccolo testo, forse un sermone, di un importante personaggio del III sec., il vescovo di Cartagine Cipriano, un esponente dell'alta borghesia africana, battezzato in età adulta, autore di trattati teologici e di un ricco epistolario e decapitato il 14 settembre 258, sotto la persecuzione dell'imperatore Valeriano, un senatore console eletto per acclamazione dall'esercito romano.
Originale latino e traduzione a fronte sono ora disponibili agli occhi dell'uomo moderno che si è nutrito di tante altre e ben diverse letture al riguardo: è facile rimandare, ad esempio, a quell'"invidia del pene" sulla quale ha ricamato i suoi arabeschi psicologici Freud, identificando il «complesso di evirazione della bambina messo in moto dalla vista del genitale maschile», tesi però smentita e altrimenti impostata dall'Invidia e gratitudine di Melanie Klein. Cipriano, certo, non esclude un suo approccio psicologico, ricorrendo a un vivace apparato simbolico: tarlo (tinea) dell'anima, marciume (tabes) dei pensieri, ruggine (rubigo) del cuore che produce «il volto minaccioso, lo sguardo torvo, il pallore del volto, il tremore delle labbra, lo stridore dei denti, le parole rabbiose, gli insulti sfrenati, la mano pronta alla brutalità dell'omicidio».
Naturalmente il topos della condanna del vizio che dilagherà in tutta la letteratura moralista, ha nello scritto ciprianeo una specifica matrice teologica che si aggrappa alla Bibbia, a partire dallo scontro primigenio tra Caino e Abele e dall'opera tentatrice diabolica, come già sosteneva il libro della Sapienza, uno scritto biblico del tardo giudeo-ellenismo alessandrino: «È per l'invidia del diavolo che la morte è entrata nel mondo» (2,24). Di fronte a questa onda irresistibile che dilaga sulla terra quale diga è possibile opporre? O, per stare alla metafora ignea di Cipriano, all'«invidioso che brucia, nelle fiamme del livore, di un incendio sempre più grande quanto più colui che è invidiato progredisce» quale antidoto può essere somministrato? La seconda parte del testo è dedicata proprio a quest'opera catartica.
La terapia principale è ovviamente quella dell'umiltà e della carità, proprio perché l'invidia sboccia dalla superbia e fiorisce in odio. È la via abbozzata da Cristo in quella celebre autopresentazione: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Matteo 11,29) e nella regola dell'autorità cristiana: «Chi sarà stato il più piccolo tra voi tutti, questi sarà grande» (così Cipriano rende il testo di Luca 9,48). L'apostolo Paolo fra le qualità della carità-agápe porrà proprio l'assenza di ogni invidia (1Corinzi 13,4). Si tratta, quindi, di sostituire alla meschinità del geloso, che non sopporta le superiori doti intellettuali e spirituali dell'altro, la nobiltà d'animo, la consapevolezza dei propri limiti, «il rigetto del veleno del fiele, l'espulsione del tossico delle discordie», come afferma Cipriano. È ciò che il re Salomone, che funge da pseudonimo nel citato libro della Sapienza, confessa di se stesso: «Senza frode imparai, senza invidia io dono» (7,13).
Il trattatello (o sermone) del vescovo di Cartagine è quasi una goccia nel vasto mare letterario che questo vizio capitale ha generato. Pur nella sua netta impostazione morale cristiana, può diventare uno stimolo a un esercizio etico personale, consapevoli come siamo che, tra le tante ramificazioni perverse, la gelosia può trasformarsi in ossessione e in smania di possesso che conduce fino all'annientamento dell'altro non solo con la calunnia ma con una vera e propria eliminazione fisica. Facile è il rimando alla tragica sequenza delle donne uccise da maschi gelosi fino all'aberrazione. Nietzsche nella Gaia scienza ironizzava: «Non augurate all'invidioso di aver figli: sarebbe geloso di loro perché non può più avere la loro età!». In realtà il cervello dell'invidioso/geloso è in fiamme e partorisce incubi, e aveva ragione Alberto Moravia quando in uno dei suoi Nuovi racconti romani comparava l'invidia a «una palla di gomma che più la spingi sotto e più ti torna a galla».

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