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Questo articolo è stato pubblicato il 21 settembre 2014 alle ore 08:14.

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«Los Angeles è un non-luogo, nell'accezione di Marc Augé una città difficile da afferrare, pur essendo un set, come Roma. E come Roma è una città in fiamme, siano queste le lingue rosse dei tramonti, la città che brucia per mano della follia del potere o nei bagliori notturni di una guerriglia urbana…». Così la gallerista-dealer-curatrice Emi Fontana descrive la città in cui ha scelto di vivere, pur non avendo mai reciso i suoi legami affettivi con Roma, che domina perfino nel titolo del suo più recente progetto artistico ed esistenziale: West of Rome Public Art. Cominciamo da qui, dalla scelta del nome: "West of Rome è la definizione di una geografia interiore e la citazione di un racconto di John Fante, in cui parla della sua vita di sceneggiatore a Beverly Hills e del contrasto con le sue origini d'immigrato dell'Italia meridionale. La prima volta che sono volata a Los Angeles nel 1996, in aereo leggevo la novella di Fante Chiedi alla polvere. Era l'inizio di una frenesia che mi portò a divorare tutta la sua opera in pochi mesi, incluso appunto West of Rome".
Oggi West of Rome (organizzazione non-profit con base a Pasadena) è l'interfaccia decisiva tra le più alte istituzioni dell'arte contemporanea nella contea di Los Angeles, come il Lacma e il Moca, e le più innovative e originali strategie espositive di Public Art; due eventi in particolare hanno segnato la recente storia di Los Angeles: Women in the City, che nel 2008 sugellò il sodalizio storico di Emi Fontana con Barbara Kruger, Jenny Holzer, Louise Lawer, Jennifer Bolande, Marnie Weber e Cindy Sherman, le quali invasero letteralmente Hollywood e dintorni con le loro riflessioni post-femmministe esposte su larga scala; e Trespass Parade, un evento urbano del 2011 in cui il musicista Arto Lindsay, l'artista Rirkrit Tiravanija e migliaia di persone manifestarono pacificamente indossando slogan filosofico-politici libertari stampati sulla propria t-shirt.
Attraverso West of Rome, Emi Fontana incarna oggi un vero e proprio paradosso, una oscillazione indecidibile tra il sistema consolidato dell'arte e un "controsistema" che spinge per riconfigurare liberamente, ogni volta, nuovi obiettivi estetici e politici. Già nel 1999 il filosofo Pierre Lévy aveva descritto nel suo libro Cyberculture la "dialettica dell'utopia e del business" come una nuova modalità di relazione tra avanguardia e mercato. É da qui che nasce forse Emi Fontana? Da dove arrivano precisamente queste sue attitudini, competenze e complessità?
La città della sua educazione sentimentale «meravigliosamente estremista», come la definisce lei stessa, è stata Roma. Cresciuta nel Movimento '77, con le Estati Romane di Renato Nicolini e il Beat 72, Simone Carella e il teatro militante, Emi frequenta Roberto Benigni e Federico Fellini, Mario Schifano e Alighiero Boetti. Con Andrea Pazienza e Stefano Tamburini partecipa a quella eccezionale stagione della creatività italiana che produce «Il Male», «Cannibale», «Frigidaire», le prime riviste satiriche underground. Ma gli entusiasmi svaniscono presto e la relazione con Tamburini ha un tragico epilogo: «Avevo ventiquattro anni quando morirono Stefano Tamburini e Andrea Pazienza, a distanza di un anno l'uno dall'altro. Per me fu uno shock, la scoperta che non eravamo immortali. Così diversi, entrambi dotati di un'intelligenza sfavillante e un umorismo irrefrenabile, erano stati, e in un certo senso lo sono ancora, tra le persone più importanti nella mia vita».
A cavallo tra Anni '70 e '80, Emi Fontana è quindi una giovane studiosa che ama l'Arte Veneta e l'Antropologia Culturale, e che assiste inerme all'epilogo delle avanguardie. In quegli anni infatti lo scenario muta radicalmente. Se prima la ricerca artistica e il mercato avevano convissuto, ora le strade si biforcano: i movimenti politicizzati implodono, l'avanguardia artistico-scientifica si ritira in solitudine, mentre la Transavanguardia spalanca le porte al mercato globalizzato. È l'inizio di una lunga "bolla" culturale che accompagnerà l'Italia, in modo lento e inesorabile, verso l'attuale crollo economico. Ma è anche l'inizio del singolare viaggio di Emi Fontana.
«Lasciai Roma e approdai a Torino e poi a Milano. Scelsi una caserma del '700 in Viale Bligny come sede della galleria, tra il centro storico e i Navigli. C'erano anche Maurizio Cattelan, che abitava lì, e la Shake Edizioni, punto di riferimento del cyberpunk italiano. Il luogo ancora oggi presenta una varietà etnica, culturale, sociale e di genere, unico. Sì, c'è sempre da parte mia questo tentativo disperato e in qualche modo velleitario di allontanare l'arte dai suoi approdi borghesi. Inoltre mi resi conto della misoginia allora imperante nel sistema dell'arte italiano. Così, diedi vita a un Archivio di artiste-donna con Laura Ruggeri, Gianni Romano e la collaborazione di Via Farini che tutt'oggi ospita l'archivio». Per tutta la prima stagione Emi espone sistematicamente solo artiste-donna: Nancy Dwyer, Renee Green, Cosima von Bonin, Liliana Moro e Laura Ruggeri. La sua insofferenza per il provincialismo italiano e i suoi retaggi patriarcali la spinge ad abbracciare una dimensione internazionale dell'arte entrando nel big game. «La mia galleria era presente a Basel già nel '98, quando le fiere stavano diventando centrali per il nuovo ecosistema dell'arte. Molti degli artisti con cui lavoravo, come Olafur Eliasson, diventarono famosi, richiesti da collezionisti di alto livello. Ma il big game in linea di massima era noioso e prevedibile, nonostante i record d'asta mai visti prima, fiumi di champagne e jet privati che intasavano gli aeroporti di Miami e Basilea durante le fiere».

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